Nel lungo viaggio attraverso l’Italia, a Taranto – la città dove le elezioni sono più importanti, per le mille ragioni che potete immaginare – ho incontrato la nostra scelta «naturale», Vincenzo Fornaro, in ticket con Anna Rita Lemma, che ha deciso di sostenerlo e di accompagnarlo senza insistere in una candidatura propria (unico caso nella storia della Repubblica in cui la generosità prevalga nelle scelte della politica).

Fornaro è metafora della riconversione, per avere deciso di rimanere sul proprio territorio e avere avviato il rilancio della propria attività imprenditoriale (nella storia c’entra anche la canapa, come sanno i lettori del mio piccolo libretto sull’argomento).

Una scelta ostinata dal punto di vista privato che Fornaro ha subito rilanciato con il proprio impegno pubblico, perché un’attività cresce solo in un contesto migliore, in un percorso che per Fornaro sembra ispirato alla costituzionalissima «funzione sociale dell’impresa».

La contrapposizione tra ambiente e lavoro, tradizionale nel dibattito a Taranto e su Taranto, non l’ha mai convinto. Con Fornaro abbiamo ricordato che il degrado ambientale porta al degrado sociale, com’è ovvio che sia, e i due fenomeni inevitabilmente si corrispondono. Peraltro, le notizie che giungono dalle due ‘cordate’ fanno capire che la strada scelta dal governo – ancora troppo timida sul versante della riqualificazione ambientale e incerta nella quantità delle risorse da investire, nonché tutt’altro che ambiziosa nella ricerca delle soluzioni – porterà a una riduzione notevole dell’occupazione.

Nel frattempo, a ogni decreto è scesa la fiducia dei cittadini verso le istituzioni. E la città intorno all’Ilva, potremmo dire, ne ha sofferto in ogni ambito.

È una questione di valenza nazionale in una città in cui pullulano i candidati e le liste, una campagna elettorale che è un paradosso in se stessa, perché si trova ad affrontare il disagio sociale con mezzi sfarzosi, cartelloni appesi a ogni angolo, comitati in tutti i negozi (molti sfitti e occupati guarda caso per la fugace occasione della ricerca dei voti), striscioni che cambiano lato della piazza: e non è solo un’immagine, perché ci sono i soliti trasformismi, i passaggi da uno schieramento all’altro, le migrazioni di voti ormai tradizionali a ogni latitudine. E il solito voto scambiato, con la promessa dei favori e dei privilegi minimi, che una popolazione più esposta di altre rischia di accettare.

Protagonista un ceto politico generalmente subalterno verso i poteri e verso gli equilibri romani, incapace di tirare un filo teso verso la politica del governo nazionale e di Bruxelles, che in questa storia ha un ruolo centrale e non rendersene conto non aiuta affatto.

Una frammentazione che favorisce il potere costituito e che è fatta letteralmente apposta. Una divisione elettorale che nasconde puntualmente un accordo di fondo, tra chi c’è già, potremmo dire da sempre, in un dato antropologico insuperabile. A meno che, appunto, non si decida di superarlo. Di cambiare. Di rompere, per davvero, con le consuetudini che non hanno certo fatto bene alla città e, attraverso la politica, ai suoi cittadini.

Fornaro, Lemma e i loro candidati vogliono affermare qualcosa di diverso e insieme cambiare il quadro politico tarantino, con un’operazione semplice, genuina e netta. Senza padrini né padroni, come si diceva una volta. Con gli occhi asciutti nella notte tarantina, magnifica e terribile, con il mare sotto e sopra le luci e i fumi della grande fabbrica, in una città tra le più antiche del Mediterraneo, meravigliosa per la collocazione geografica e per il suo paesaggio. E questo non deve più essere uno dei tanti paradossi della vita dei tarantini.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti