Questo uso elusivo, ambiguo, stravolto delle parole era ben noto a Sallustio, storico del I secolo a.C., testimone del declino politico e morale della Repubblica, il quale per bocca di Catone ammoniva: «abbiamo smarrito i veri nomi delle cose» (Catilina, 52, 11 nos vera vocabula rerum amisimus), per cui «elargire i beni altrui viene chiamato liberalità e la temerarietà delle male azioni viene detta forza d’animo» (bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur); come era stato noto già a Tucidide (V secolo a.C.), modello di Sallustio, il quale individuava nell’uso ingannevole della parola (euprépeia lógou) la sintomatologia perversa (kakotropía) della guerra civile: «pretesero persino di cambiare la consueta accezione delle parole (onómata) in rapporto ai fatti, sulla base di ciò che ritenevano giustificato. La temerarietà sconsiderata fu ritenuta coraggiosa solidarietà di partito; la prudente cautela, speciosa vigliaccheria; l’equilibrio, ammantata codardia; l’assennatezza in tutto, inerzia verso tutto; l’impetuosa impulsività fu accreditata a un temperamento virile; il riflettere con calma, in nome della sicurezza, a suadente, pretestuosa riluttanza» (La guerra del Peloponneso 3, 82, 4).

Ivano Dionigi, Il presente non basta. La lezione del latino, Mondadori 2016, pp. 40-41.

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