Ieri il partito della nazione, in Basilicata, ha sostituito il presidente del Consiglio regionale, Piero Lacorazza, con un esponente del partito di Alfano, ‘partito’ dall’opposizione ma ora al governo, a Potenza e ormai praticamente in tutta Italia.

Lacorazza è colpevole di avere promosso il pacchetto referendario sulle trivelle (di cui quello votato, come sapete, rappresentava solo una piccola parte) e di non avere sposato entusiasticamente le ragioni del sì al referendum.

E così, mentre lunedì la segretaria (tra Hammurabi e Casa Pound) chiedeva la moratoria delle polemiche interne, nel partito della nazione si è, per l’ennesima volta, ribadito che la linea è quella e non si ammettono eccezioni. E così, dopo avere menato Emiliano, ci si occupa dell’esponente lucano, già destinatario del ciaone dell’entourage del premier.

Lo registro, credetemi, con dispiacere, ma oggettivamente non poteva che finire così. Con buona pace di chi continua a cercare un dialogo (negato), a rispettare la ditta (!) a prescindere da ciò che gli tocca votare, a ribadire la necessità di stare uniti sotto la guida del premier, costi quel che costi, per sfidarlo poi a congresso, quando sarà troppo tardi o sarà già tutto finito.

Mi rendo conto dell’imbarazzo di chi ha votato in aula a favore delle riforme e ora sta riflettendo sul «che fare» al referendum. Perché un parlamentare che vota sì in aula, poi dovrebbe farlo anche fuori, da cittadino. Mi rendo conto che non sia semplice. Però forse è ora di prenderne atto. Che le ragioni stanno da un’altra parte. E che il gioco sta diventando pericoloso. Per parafrasare il senso e il contenuto di quel romanzo, in cui a uno a uno sono tutti marginalizzati o eliminati.

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