Con 179 voti favorevoli si consuma un altro passaggio della riforma costituzionale, che se confermata dalla Camera potrà approdare alla seconda lettura, in cui la approvazione deve avvenire a maggioranza assoluta, ieri raggiunta e superata agevolmente seppure in un’aula per metà vuota, da cui mancavano tutti i principali gruppi di opposizione (M5S, FI e Lega).

La maggioranza, in sostanza, sembra destinata a essere un po’ più ampia di quella che approvò la riforma del 2006 (quella ideata da Berlusconi e Calderoli e poi bocciata dagli elettori), grazie al ricompattamento del Pd e al soccorso dell’Ala (destra) di Verdini.

Riconquistare la minoranza Pd è stato, in fondo, agevole per il governo: è bastato mezzo comma e gli strepiti contro la deriva autoritaria sono diventati inni all’equilibrio della riforma. In particolare, dopo avere minacciato fuoco e fiamme per mantenere l’elettività dei senatori (perché, in effetti, tutta questa arzigogolata riforma nasce dalla determinazione a eliminare il suffragio universale per il Senato), la minoranza Pd si è accontentata del fatto che i senatori siano sì eletti dai consigli regionali, ma «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma».

Il testo presenta una formulazione contorta, capace di mantenere le mani libere al ceto politico per cooptarsi agevolmente (come già avviene per la formazione dei consigli provinciali) ma non lascia dubbi circa il fatto che ad eleggere i senatori-consiglieri regionali (74) e i senatori-sindaci (21) saranno i consigli regionali.

Dire che i consigli regionali “ratificano” le decisioni degli elettori è semplicemente falso perché in contrasto con la lettera dell’articolo in questione. E del resto non avrebbe senso: se davvero decidessero gli elettori (ai quali – forse è il caso di ricordarlo – spetta la sovranità) perché mai ci dovrebbe essere una ratifica dei consigli regionali?

Ma tanto è bastato – dicevamo – alla minoranza Pd (ormai a tutti gli effetti dissolta nella maggioranza) per votare a favore (con l’eccezione di Mineo e Tocci, rimasti contrari e Casson e Tronti, astenuti) e far rientrare qualunque critica. Che in fondo l’affezione al partito conta più di quella alla Costituzione (con buona pace del divieto di mandato imperativo).

Ho personalmente apprezzato le parole e la posizione di Elena Cattaneo, che si è astenuta.

La convinzione dell’Ala verdiniana, invece, è profonda e viene da lontano. Come hanno ricordato i diretti interessati e il governo all’unisono, in fondo, si tratta di senatori che avevano già votato – quando stavano in Forza Italia – la riforma (nell’agosto 2014). È (il resto di) Forza Italia ad avere cambiato idea nell’ultimo anno. Il che è legittimo e frequente, anche perché i testi mutano e i posizionamenti politici ancora di più. Ma se è legittimo cambiare idea lo è certamente anche non farlo. Semmai sarebbe interessante sapere se il mantenimento e il cambiamento delle idee (diciamo) avviene sempre con spirito costituente. Perché la senatrice a vita Cattaneo nella sua dichiarazione finale ha detto come le risulti «difficile individuare nelle scissioni e ricomposizioni dei gruppi presenti in quest’aula, in prossimità delle votazioni decisive, l’interesse del Paese a una buona riforma». Ecco, in effetti, anche da fuori del Senato l’impressione è proprio la stessa.

E l’impressione che questa riforma non sia buona per niente, in effetti, aumenta andandola a vedere da vicino: barocca nella scrittura, incerta nei contenuti, con competenze solo enunciate attribuite alla rinfusa a un Senato di nominati («in conformità delle scelte degli elettorI», ci mancherebbe, mica in contraddizione con queste: che democratici!), e con una decina di procedimenti legislativi e un governo che comunque – a un certo punto – può costringere a un voto finale e risolutivo: insomma, basta chiacchiere di questo che – per rovesciare l’auspicio di Spinelli rispetto alla prospettiva del Parlamento europeo – è un parlatoio, mica un Parlamento.

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