Sta andando molto forte la ripresa quotidiana di luoghi comuni e di frasi ad effetto. Del resto, abbiamo passato un anno a dire che avremmo eliminato i politici dalle province (poi li abbiamo lasciati, anche ad eleggersi tra loro, così come faranno per il Senato se mai passerà la riforma), che gli insegnanti possono (o devono) lavorare di più, che i magistrati sono sempre in ferie (ed è per quello che la giustizia non funziona) e via così, di slancio.

Ora tocca alle Regioni, il bersaglio più facile. Soprattutto se si pensa ai consiglieri regionali: molti dei quali sono alleati e al governo, peraltro, ma nessuno pare essersene accorto. E diventeranno senatori (insieme a qualche sindaco), quei pessimi consiglieri regionali su cui è tanto facile ironizzare, scegliendosi appunto tra loro. Ma che cosa volete che sia: le contraddizioni più sono clamorose più si fa finta di non vederle.

Il motto è: «Sono 20 anni che sacrifici li fanno i cittadini, ora è tempo che li facciano altri, tra cui i ministeri e le regioni». Tutto bellissimo, solo che se tagli per miliardi i trasferimenti alle Regioni (cancellando contemporaneamente tasse regionali), non è che ci smenano i consiglieri regionali che hanno più di una cosa «da farsi perdonare». Ci smena la sanità, il trasporto pubblico (su cui dovremmo invece investire), il diritto allo studio e tante altre cose con cui le famiglie hanno a che fare.

A conferma di tutto ciò, quando il livello scende al bar dello sport, si risponde con la viva voce di Franco Fiorito, il quale, oltre a accusare il premier di avere speso più di lui (e il livello scende ancora di più, con tanto di citazione di un bicchiere di vino da 8 euro al giorno), fa notare che molti «senatori su cui si regge» la maggioranza sono stati suoi «colleghi del consiglio regionale» (a pagina 2 del Fatto di oggi: un’intervista in cui Fiorito spiega come e qualmente anche Pericle, forse, si approfittava più di lui dei soldi dei propri concittadini).

Dopo il bar, c’è la cena, metafora a cui si è ricorso in queste ore per dire che la cena si offre, sì, ma con i soldi degli altri.

E allora, per uscire da questo rincorrersi di dichiarazioni che hanno poco riferimento con la realtà, vale la pena di leggere le parole del capogruppo del Pd in Regione Lombardia, che non è certo un dissidente (come si può evincere dal fatto che è capogruppo, tra l’altro). Enrico Brambilla scrive così:

Stabilità 1: chi paga il conto?

A cena in compagnia c’è spesso quello che più di altri tiene la serata con racconti, battute, iniezioni di buonumore. Che fa il brillante per far colpo sul gruppo e non lesina nell’ordinare champagne per tutti. Poi, al momento del conto, punta il dito verso chi deve pagare la festa, facendolo sentire un povero tirchio egoista in caso di resistenza. Al banchetto della Legge di stabilità era scontato che il convitato destinato a pagare gli sgravi concessi con generosità (soprattutto alle imprese) fosse la finanza locale. Non è una novità: anche i pur ottimi 80 euro in busta paga li hanno in gran parte pagati i comuni coi tagli loro imposti, salvo poi rivalersi sui cittadini aumentando la Tasi. Gestita cosí è una gran partita di giro (per usare termini edulcorati). Il conto è giusto che lo si paghi tutti, meglio se in proporzione a quanto ognuno ha in tasca. Quelle dei comuni sono vuote, da lì non si può prendere proprio più nulla.

Stabilità 2: non scherziamo sulla sanità

La reazione di Maroni ai nuovi tagli per le Regioni è sbagliata. Minacciare la chiusura di dieci ospedali sembra più una ritorsione che una effettiva valutazione dei potenziali effetti della manovra. È comunque inaccettabile il tono di sfida del Presidente del Consiglio. Prendersela con le Regioni, dopo Fiorito, è facile e crea consenso. Noi stessi abbiamo più volte denunciato come anche nelle pieghe della sanità lombarda vi siano inefficienze e sprechi. Il punto è che i risparmi che si devono ottenere vanno reinvestiti per coprire i nuovi bisogni e per far scendere i ticket troppo costosi. Si impongano pure tagli, purché ne beneficino direttamente i cittadini lombardi che pagano più di altri: quel che non va bene è che i frutti invece siano a favore della spesa centrale.

Stabilità 3: povera Irap

La cancellazione dell’Irap sul costo del lavoro a tempo indeterminato ha raccolto consensi pressoché unanimi. L’Irap è l’imposta più odiata. Si dice perché iniqua. La vera ragione è che si tratta dell’imposta più difficile da evadere. Basata su tre fattori: profitti, lavoro, interessi. Va inoltre ricordato che al momento della sua istituzione assorbì sei precedenti imposte, tra cui la famigerata tassa sulla salute. Tanto che, nell’impianto federalista, era destinata a sostenere i costi della sanità ed essere quindi regionalizzata. I vari interventi successivi ne hanno ormai stravolto la natura: tanto vale abolirla del tutto. Rimane però poi il tema di come finanziare il federalismo, ammesso che ci si creda ancora.

No, tranquilli, non ci crede più nessuno al federalismo. Nemmeno chi a me rimproverava di esserlo troppo poco, in questi anni. Tutti centralisti (al punto da portare i consiglieri regionali al Senato di Roma). Evviva.

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