Walter interviene per rispondere ai numerosi commenti e ai tanti messaggi che gli sono pervenuti in questi giorni complicati:

Tra i tanti messaggi che ho ricevuto a seguito delle mie dimissioni da senatore, quelli dei giovani in particolare sembrano averle interpretate come un segnale di abbandono. Ho chiesto a Pippo ospitalità sul suo blog per dire loro che non è così, anzi. Il mio gesto vuole essere un incitamento ai giovani a impegnarsi in politica, rischiando per le proprie idee, contribuendo a migliorare il rapporto dei partiti con la società.

Fin dalla sua nascita, il Pd si è appoggiato molto alla figura del leader, con alterne fortune, ma non ha mai messo a frutto le tante altre risorse disponibili: ci sono tre milioni di elettori pronti a impegnarsi; nei territori giovani amministratori realizzano quelle innovazioni che stentano a livello nazionale; tanti movimenti che curano i beni comuni avrebbero molto da proporre a un partito disposto ad ascoltare; tante competenze, nuovi linguaggi, esperienze creative potrebbero essere coinvolte nell’inventare nuovi modi di fare politica. Un partito che utilizza appieno le risorse civili disponibili è in grado di durare più dei suoi leader. Viviamo nel tempo corto della comunicazione, ma i partiti servono anche al tempo lungo del cambiamento. La grande politica che trasforma un paese ha una durata.
Questo è il Pd non ancora che insieme abbiamo sognato nelle primarie.

Per me è stata una bellissima esperienza umana e politica; venivo dallo sconforto del fallimento della mia generazione nel collasso dei 101 e ho trovato nuove motivazioni proprio incontrando i giovani civatiani, a cominciare dai primi incontri a Bologna di OccupyPd e poi al Politcamp di Reggio Emilia. Con voi ho ritrovato fiducia ed entusiasmo e ve ne sono tanto grato. Aver creato nuove condizioni per l’impegno politico di tutti noi è merito di Pippo, forse uno dei più generosi tra i politici di oggi.
Ora quel sogno non dobbiamo smarrirlo, ma renderlo ancora più concreto, nonostante il conformismo e talvolta l’ostilità che si respira nel Pd.
In questi giorni Matteo Renzi ha detto che in un partito del 41% deve esserci spazio per le differenze. Vorremmo prenderlo in parola e verificare come intende attuare il suo proposito, specialmente se più o meno in contemporanea i suoi pretoriani invocavano espulsioni, rispolverando un vecchio armamentario che ricorda le pagine peggiori della sinistra. Pagine che credevamo di esserci lasciati alle spalle con l’iscrizione al Partito Democratico.

Sono inaccettabili le reprimende ai colleghi che non hanno votato la fiducia. Condivido pienamente con Casson, Mineo e Ricchiuti il giudizio negativo sulla riduzione delle garanzie per i lavoratori e sullo strappo costituzionale di una delega conferita al governo senza i necessari indirizzi parlamentari. Sono scelte che superano il mandato ricevuto dagli elettori nel 2013 ed è pertanto pienamente legittimo che si possa non rispettare la decisione di partito.

Sento in giro una grande nostalgia per il centralismo democratico, proprio da parte di chi predica il superamento del modello novecentesco. Da quel passato non si può riesumare solo il vincolo disciplinare, gettando via tutto il resto: gli iscritti, la cultura, la partecipazione. Non possiamo neppure accettare che tutto si riduca a una questione di vita interna. Noi abbiamo segnalato in forme diverse – con il non voto della fiducia e con il gesto personale delle dimissioni – lo stesso allarme per una questione squisitamente istituzionale. C’è stato un trasferimento di fatto del potere legislativo a favore dell’esecutivo su un principio costituzionale come i diritti dei lavoratori. Il governo ha chiesto una delega in bianco e ha impedito al Parlamento di definire gli indirizzi. Di più, il presidente del Consiglio ha posto la fiducia per bloccare la discussione degli emendamenti presentati da circa 40 senatori del partito di cui è segretario. Il tema, dunque, non è l’obbligo di votare la fiducia, ma il fatto che la fiducia non può essere utilizzata per evitare il confronto politico e parlamentare.

Ho citato l’esempio americano non a caso. Quel paese è in grado di governare il mondo anche se al suo interno diversi senatori votano contro le proposte del Presidente dello stesso partito. Nella saggezza di quella democrazia, la libertà del parlamentare serve e bilanciare la forza verticale del potere esecutivo; è uno dei contrappesi che impediscono il governo assoluto. Noi non abbiamo il presidenzialismo, ma da tempo ci siamo indirizzati verso una verticalizzazione della decisione, nella pratica con la delega ai leader, e in diritto con le riforme istituzionali in corso che accentuano la potenza dell’uomo solo al comando. Se questo può disporre anche di un potere disciplinare assoluto verso i propri parlamentari allora si riducono ancor di più i margini di una normale dialettica politica.

Nel Pd dovremo discuterne seriamente. Non vogliamo neppure sentire il linguaggio delle espulsioni. L’autonomia dei parlamentari ha una funzione ben precisa. Non è un problema di vita di partito, è una questione istituzionale.

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