Il Post torna sul tema delle province, con un articolo molto dettagliato (e un rinvio all’articolo di Riccardo Ferrazza molto prezioso).

Malgrado una certa semplificazione giornalistica e nonostante dichiarazioni poco chiare («Abbiamo abolito i politici dalle province», Matteo Renzi durante una conferenza stampa in aprile), la riforma delle province convertita in legge lo scorso aprile dalla Camera (si trattava del cosiddetto “Disegno di legge Delrio”, il numero 1542-B) non prevede un’abolizione, ma una sostituzione con nuovi enti che continueranno a occuparsi di edilizia scolastica, tutela e valorizzazione dell’ambiente, trasporti, strade provinciali e per i quali (a differenza di prima) non ci saranno più elezioni dirette. Tra le modifiche sostanziali della riforma c’è infatti la modalità di elezione delle varie cariche: il presidente, i rappresentanti delle assemblee e del consiglio verranno infatti votati da sindaci, consiglieri comunali e provinciali uscenti della provincia stessa. Gli eletti (sempre sindaci e consiglieri) non percepiranno alcuna indennità.

Ora, non solo non abbiamo abolito i politici, ma questi contano molto più di prima. Non ricevono uno stipendio (sulla base di una linea che l’unica cosa che non abolisce è la demagogia), ma gestiscono un potere analogo a quello di prima.

La novità è che vanno a elezione, ma tra di loro, potremmo dire, e si tratta delle uniche elezioni in cui invece degli exit poll potremmo fare gli entry poll, perché il risultato si conosce prima di votare.

Si dice: ma sono elezioni di secondo livello e se ci si mette d’accordo prima è per dare rappresentanza a tutti i territori.

Se si finisce in un listone unico – con la giustificazione (scusa, la chiamano quelli che ne rimangono fuori) di dare rappresentanza a tutti i territori – ci troviamo di fronte non a una elezione di secondo livello, ma di terzo (con il terzo livello, quello formale, che è solo apparente).

Nel senso che ovviamente sono i partiti a decidere tutto quanto. Ma ovviamente non lo fanno sulla base di un voto (tipo primarie) o sulla base di una legge che garantisca la democrazia interna dei partiti politici (quasi tutti personali, oggigiorno) che almeno darebbe dignità a quell’elezione. Lo fanno in base agli equilibri interni, che ci si può solo augurare che siano davvero democratici, perché non c’è legge né prescrizione sul punto.

Quindi, ricapitolando, ecco i tre livelli:

Livello 1: spartite le quote tra partiti (in base alla consistenza) in ciascuno di questi si stabilisce chi ci va.

Livello 2: si confluisce nelle liste uniche condivise con gli altri (quindi c’è una selezione, perché per rappresentare ogni territorio qualcuno deve rinunciare per far posto all’altro).

Livello 3: la platea vota qualcosa che è stato deciso altrove.

Un Porcellum a strati, senza particolari garanzie, senza controllo. Dove i politici scelgono se stessi, ovviamente, e i partiti decidono tutto quanto. Una lasagna, che in alcune località si chiama pasticcio. Se pensate che l’atteggiamento potrebbe valere anche per il Senato, forse, avrete occasione di rifletterci un po’.

Prima che sia già tutto deciso, perché lo è.

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