«Previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio»: così recita la lett. b dell’emendamento presentato dal governo alla legge delega sul lavoro ora all’esame dell’aula del Senato.

Ad una prima lettura la norma fa pensare che si intenda introdurre un nuovo contratto di lavoro di ingresso al quale, dopo un periodo di transizione, applicare le regole che riguardano tutti i lavoratori a tempo indeterminato. Pare invece che non sia così.

Se alcuni dei componenti della commissione lavoro del Senato che hanno votato il testo sostengono l’interpretazione appena richiamata, altri componenti della stessa commissione affermano il contrario, dichiarando in innumerevoli esternazioni che, a regime, ai nuovi assunti non si applicherà la tutela contro i licenziamenti prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Con particolare foga la tesi è argomentata dai senatori Sacconi e Ichino: il che non stupisce, dato che i due da decenni sostengono che l’art. 18 andrebbe abolito per tutti, poiché sostituire la monetizzazione alla reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato sarebbe la panacea di tutti i nostri problemi occupazionali.

Salvo, naturalmente, i licenziamenti discriminatori, per dimostrare i quali tuttavia, sostenevano i classici, occorre una prova così difficile da essere definita 'diabolica'. Né le intenzioni reali sono chiarite dal presidente del Consiglio il quale un giorno dichiara che «non si parla dell’art. 18» mentre il giorno dopo sembra pensare che la reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato non sia una regola di civiltà ma un ferrovecchio capace di appassionare solo la “vecchia guardia”, nella quale tuttavia non sono inclusi i vari Sacconi, Brunetta e Co.

Ce n’è abbastanza per concludere che la disposizione citata all’inizio non è affatto chiara, non contiene “principi e criteri direttivi” univoci, tanto da essere interpretata in termini radicalmente diversi dagli stessi proponenti. Si tratta quindi della classica “delega in bianco”, costituzionalmente inammissibile. Non si capisce  infatti, cosa siano queste famose “tutele crescenti”, quando e come abbiano inizio e termine, e che cosa accade alla fine del periodo di transizione.

Si aggiunga che ove la suddetta “delega in bianco” dovesse essere approvata dal Parlamento ed attuata nel senso di escludere per sempre coloro che vengono assunti col nuovo contratto dalla tutela comune contro i licenziamenti ingiustificati, nascerebbero ulteriori gravi problemi. Intanto si determinerebbe una nuova e perversa spaccatura nel mercato del lavoro, con un trattamento diversificato tra i nuovi assunti, a cui si applicherebbe la “libertà di licenziare”, sia pure monetizzata, e i già occupati; inoltre verrebbe introdotto un indiretto incentivo a licenziare questi ultimi per sostituirli con lavoratori assunti con il nuovo contratto ovvero per essere riassunti, altrove, con il medesimo nuovo contratto, il quale – e questo è un punto cruciale – non è limitato a una fascia di età, ma si applica a tutti a prescindere dal requisito anagrafico.

Infine, proviamo a visualizzare la situazione. Vi sarebbero, a regime, due tipi diversi di lavoratori negli stessi luoghi di lavoro: alcuni manterrebbero la tutela piena contro i licenziamenti ingiustificati, altri, di serie B, pur svolgendo lo stesso identico lavoro avrebbero invece una tutela dimezzata, solo risarcitoria.

In quale strana accezione del principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 della Costituzione può trarre legittimità una tale differenza di trattamento su un istituto cruciale del rapporto di lavoro come quello relativo ai limiti del potere di licenziamento?

Un motivo in più per chiarire bene cosa sta scritto in quella delega ovvero cancellarla del tutto.

Luigi Mariucci, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Venezia-Ca' Foscari

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