Torniamo sulle riforme costituzionali, che riteniamo necessarie, anche se avremmo preferito che a farle fosse il prossimo Parlamento (come suggerito da diversi costituzionalisti, tra cui Alessadro Pace che avevamo già ripreso), eletto rapidamente con una nuova legge elettorale capace di far scegliere gli eletti dagli elettori e non viceversa, come avevamo detto prima proponendo il Mattarella nella versione già prevista per il Senato e da ultimo presentando le nostre osservazioni al testo base che ha poi condotto all’Italicum.

Ci torniamo perché la proposta del Governo, già presentata due volte eppure non ancora approdata in Parlamento, sembra non piacere (più) a nessuno. La critica fortemente su Repubblica del 6 aprile, Eugenio Scalfari, che pure ritiene che una riforma del bicameralismo sia necessaria. Proprio come diciamo noi da tre mesi e come anche da ultimo hanno detto molti altri, anche tra i contrari all’ipotesi dell’esecutivo. È quella dello stesso presidente del Senato Grasso, la voce più autorevole levatasi a difesa del Senato con un’intervista a Repubblica del 30 marzo 2014, in cui riconosceva, appunto, la necessità di riformare il bicameralismo, lasciando però al Senato alcune importanti funzioni e quindi ai cittadini l’elezione dei senatori (o almeno di una parte di questi, altri potendo essere scelti dagli stessi Consiglio regionali al proprio interno).

Infatti, se il Senato dovesse essere svuotato (non abolito come si sente ripetere) di funzioni e divenire una sorta di dopo-lavoro per amministratori locali, che sarebbero inevitabilmente scelti dai capi dei due principali partiti tra le loro fila, sarebbe meglio abolirlo davvero, arrivando al monocameralismo.

Come in effetti, sostengono autorevoli costituzionalisti, da Ainis a Zagrebelsky  passando per Azzariti e Balboni (che ricorda anche le posizioni espresse nello stesso senso in sede di commissione dei consulenti del Governo Letta da Ciarlo e Pitruzzella). E in effetti, i costituzionalisti e gli altri esperti sono generalmente critici (o molto critici) nei confronti di questa riforma del Senato, come dimostra non solo il tanto contestato appello di Libertà e Giustizia, ma anche numerosi interventi, che, salvo casi sporadici, risultano molto meno duri e più aperti a un percorso riformatore, come (oltre ai sopra ricordati), quelli di BilanciaCaretti, Carlassare, Patroni Griffi, Pertici e Zaccaria, per citarne alcuni. Del resto, la riforma del Governo non si pone in linea non solo con nessuno dei modelli stranieri, ma neppure con nessuna delle indicazioni – pur tra loro assai eterogenee – dei “saggi” consulenti del Governo Letta.

Non crediamo, francamente, che le indicazioni che emergono da questi interventi possano essere liquidate come le critiche dei “soliti professoroni” che da trent’anni ostacolano le riforme. A parte la sgradevolezza di una impostazione che pare rifiutare il contributo della cultura (soprattutto se non allineata) proprio mentre ne vorrebbe inserire una rappresentanza nel nuovo Senato, deve considerarsi che non si tratta di un movimento che può essere valutato nel suo insieme, ma di singoli esperti (come quelli cui solo pochi mesi fa ci si era affidati) che non possono bloccare da trent’anni le riforme non solo perché a decidere (o non decidere) è poi comunque il Parlamento, ma anche perché tra questi c’è chi – per usare un adagio molto in voga – trent’anni fa andava ancora a scuola (i professori possono essere giovani, clamoroso, vero?). Ma soprattutto la questione è politica.

Mentre, infatti, il Governo pretenderebbe di stabilire di cosa il Parlamento può discutere e di cosa no (fraintendendo la democrazia parlamentare in cui semmai è il Parlamento a dare la linea all’esecutivo), fissando arbitrariamente quattro paletti (e perché non tre o cinque o dodici), in tutte le forze politiche presenti in Parlamento stanno emergendo posizioni critiche che vorrebbero una diversa riforma, la cui linea comune pare potersi individuare nella scelta di una seconda Camera con funzioni differenziate dalla prima, con meno senatori (come meno dovrebbero essere i deputati) direttamente eletti (almeno in parte). Visto che il percorso delle riforme istituzionali si è voluto avviare con Forza Italia, paiono da considerare anzitutto le critiche venute da questo partito, che peraltro avrebbe voluto concludere il percorso dell’Italicum prima di avviare le riforme costituzionali.

Le critiche sono state espresse sia dai Presidenti dei gruppi parlamentari alla Camera e al Senato, Brunetta e Romani, il secondo dei quali è stato particolarmente netto rispetto alla necessità di una elezione a suffragio diretto, sia poi dallo stesso Berlusconi, che preferirebbe al Senato immaginato dal Governo la sua vera e propria abolizione. La posizione del Nuovo Centrodestra, poi, è per un Senato elettivo, come ha più volte sottolineato Quagliariello, da ministro delle riforme, quando lo aveva inserito in uno schema di ddl di revisione costituzionale poi mai licenziato e anche più recentemente. Anche Scelta civica, tramite il suo segretario, Stefania Giannini, che è anche ministro, lunedì 31 marzo ha preso posizione contro la proposta del Governo invitando in particolare a una maggiore riflessione.

Su posizioni simili, poi, anche Nichi Vendola per Sinistra ecologia e libertà. Il Movimento 5 stelle ha espresso critiche durissime, pronunciandosi a favore del mantenimento del bicameralismo perfetto, e Grillo ha infatti sottoscritto il già ricordato appello di Libertà e Giustizia. Ma, da segretario del Pd, il premier dovrebbe forse porre maggiore attenzione anche alle posizioni espresse nel partito, di cui dovrebbe fare la sintesi, senza liquidare sempre il dissenso come un fastidio.

In effetti, nel nostro partito, ci sono – come noto – posizioni diverse (e tra loro molto vicine) rispetto a quella del Governo: sono solo la mia, che si è concretizzata in una proposta di legge di revisione costituzionale già presentata, con alcuni colleghi, alla Camera dei deputati (A.C. 2227) e che ho spiegato qui, ma anche quella di oltre venti senatori democratici (molti dei quali facevano parte del Civoti al Congresso, come Walter Tocci e Felice Casson), presentata in Senato il 3 aprile scorso e ulteriormente spiegata dal primo firmatario, Vannino Chiti, in un’intervista a l’Unità, del 4 aprile scorso.

A fronte di tutto questo non ci parrebbe proprio il caso di procedere come un “rullo compressore”, tanto più che a differenza di quanto si dice, in realtà, il Parlamento ha, negli ultimi dieci anni, già approvato due grandi riforme costituzionali: quella del titolo V della parte seconda della Costituzione, imposta dal centrosinistra al centrodestra e che tutti riconoscono avere funzionato male, proponendosene infatti la ulteriore revisione; quella dell’intera seconda parte della Costituzione, imposta nel 2005, dal centrodestra al centrosinistra e che fu rigettata a gran voce dal corpo elettorale (con oltre il 60% dei No).

Con questi precedenti è certamente da evitare una riforma imposta addirittura dal governo al Parlamento, magari sulla base di ultimatum che – come ho detto pochi giorni fa – trovo fuori luogo , per di più in tutta fretta, sulla base dell’argomentazione per cui delle riforme si parla da trent’anni. Personalmente, sono alla prima legislatura: delle riforme costituzionali parlo da pochi mesi – e non ancora nella sede giusta, cioè il Parlamento – e sinceramente vorrei arrivare a votare sulla base di una discussione cui ho partecipato io e non Aldo Bozzi (detto con tutto il rispetto che ho per i Costituenti e – per parte mia – anche per i professori).

Ho come l'impressione che si volesse seguire la strada che ho molto modestamente indicato – riduzione consistente del numero dei parlamentari (anche alla Camera), dimezzamento delle indennità, bicameralismo differenziato e migliore, potere di controllo e di garanzia del Senato, conservazione del suffragio universale – non solo voteremmo una riforma migliore, ma potremmo farlo con il consenso di tutto il Parlamento (e non solo di quello, ballerino, di Verdini e Berlusconi).

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