Ieri ho ripreso in mano L’Utopia di Tommaso Moro, antico iscritto al Pd. Sapete, sono mesi che mi danno dell’utopista, del velleitario, dell’anima bella, citando Hegel (un dalemiano di prestigio). E invece io penso che la nostra utopia sia il non-luogo in cui la politica si è confinata, non solo in Italia, incapace di uscire dalla propria isola o, se si preferisce, dal proprio isolato.

Nel testo, però, vi ho ritrovato due cose (concetti) di grande valore, che vi trasferisco immediatamente: il primo è quello dei «morosophi», degli «stoltamente sapienti» o dei «sapientemente stolti», che si esprimono per «la salvezza dello Stato». Di questi tempi, tra saggi e ragion di Stato, mi è parso di cogliere un riflesso utopico, diciamo così.

Ma l’immagine più forte è la seconda: quando Utopo conquistò quella terra, «non tutta era circondata dal mare». E il fondatore della nuova città, «fece tagliare la terra per 15 miglia dalla parte dov’era unita al continente e vi trasse il mare all’intorno». Un’isola che si stacca dalla terraferma. E a me è parsa un’immagine molto potente, per descrivere quell’isolamento di cui dicevo qui sopra, del fatto che siamo diventati un’isola che si è staccata per troppi anni dall’Europa, che vaga nel Mediterraneo per una scelta politica che la destra ha sempre caldeggiato e che ciò che vale per l’Italia vale anche per la sua politica, che ha perso i contatti con i propri elettori e con la realtà. Un’utopia sì, hanno ragione i critici: ma rovesciata.

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