Si parla molto di riforme e di misure e di cambiamenti radicali, però, si sembra trascurare profondamente un dato banale.

Che le rivoluzioni devono essere condivise, per funzionare. E devono aprire dal livello più basso (e insieme più alto), quello del coinvolgimento individuale e della promozione di soluzioni che provengono dai cittadini.

Non è populismo, ma il suo contrario, come spiega in modo illuminante (as usual) Alberto Vannucci, parlando di corruzione e di un cambiamento che muove «dalle fondamenta».

La classe politica appare oggi sempre più delegittimata, anche per la sensazione diffusa di una corruzione dilagante, e si condanna così a un’inerzia funzionale agli interessi degli stessi corrotti. Per uscire da questa impasse occorre forse cambiare paradigma, distaccarci dalla cultura giuridica dominante che ci porta a prospettare quale soluzione naturale di qualsiasi problema collettivo l’approvazione (quasi mai l’abrogazione) di provvedimenti legislativi. Un approccio che si traduce in una visione calata dall’alto dei processi politici, e dunque delle politiche anti-corruzione, delegate alla volontà del legislatore e delle maggioranze politiche che ne animano le scelte. Purtroppo, però, quando i decisori sono inoperosi, inetti o mossi da motivazioni di segno opposto, le politiche restano sulla carta o producono pessimi risultati.

Ma le politiche anti-corruzione possono nascere anche dal basso. Già esiste, infatti, un sapere pratico costruito dai soggetti che a vario titolo si occupano quotidianamente di questi temi nella loro esperienza amministrativa, per ragioni di ricerca o di impegno civile. Questi attori hanno col tempo elaborato una serie di iniziative, provvedimenti e meccanismi utili a recepire segnali del rischio di corruzione e infiltrazioni criminali. È un quadro ancora frammentario, in via di evoluzione. Si pensi alla pressione esercitata dalla campagna promossa da Libera e Avviso pubblico nel corso del 2011, con la raccolta di quasi due milioni di firme per la ratifica delle convenzioni internazionali; al codice etico per gli amministratori politici – la «Carta di Pisa» – proposto nel 2012 da Avviso pubblico e già adottato da un numero crescente di enti locali; al movimento Signori Rossi che, facendo tesoro dell’esperienza personale dell’ex consigliere dell’Amiat torinese Raphael Rossi, fornisce online servizi di consulenza giuridica per cittadini e amministratori che fronteggino profferte o richieste di tangenti.

Altre esperienze positive e «buone pratiche» devono però essere censite, valorizzate, proposte come modello, così da favorire l’avvio di un circuito virtuoso di imitazione e di apprendimento. Se il disinteresse o la rassegnazione sono il brodo di coltura della corruzione, «mettere in rete» e costruire una massa critica di interessi sensibili ai temi dell’integrità pubblica può essere di per sé condizione sufficiente a riattivare gli stessi circuiti di controllo democratico.

So che si tratta di un passaggio delicato e complesso, ma la politica deve cambiare punto di vista, come cercavamo di spiegare a Bologna, lo scorso ottobre, in occasione de Il nostro tempo. E come abbiamo cercato di dimostrare, passando in rassegna le 10 cose, con il contributo che proviene da molti. Anche da voi, se vorrete.

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