Scusate, ma quando ci vuole, ci vuole.

Paolo Flores d’Arcais scrive sul Fatto (che per altro ospita una mia abbondante intervista nelle pagine interne, di tutt’altro segno) un editoriale in cui si appella ai vastesi (Bersani, Di Pietro e Vendola) perché si liberino di «tutta la nomenklatura dei burocrati grandi e piccoli, allevati come “polli in batteria” nelle manovre di corridoio e nelle stanze dei bottoni, compresi gli infiniti “giovani” nati vecchi, alla Renzi e Civati».

Ecco, forse Flores dovrebbe informarsi meglio. Perché i «compresi» che dice lui sono gli unici ad aver posto un problema all’interno del Pd, proprio rispetto alla nomenklatura, ai temi che poi fanno perdere voti (dalla casta all’ambiente, passando per l’innovazione), alle richieste sempre disattese di ricambio vero e profondo, ad un confronto sempre negato. Bersani non venne alla prima Leopolda, ricordate? E pensò bene di organizzare una contro-manifestazione il giorno stesso, proprio attraverso la sua nomenklatura: mentre i giovani riempivano un’intera stazione, a Firenze. Come hanno rifatto, poi, a Bologna. E in mille altre occasioni.

Anche rispetto alle alleanze, va detta finalmente una piccola cosa: ricordo una direzione nazionale del gennaio del 2011 in cui si commentò: «l’unico che non è d’accordo con la strategia terzopolista, verso Casini e Fini e Rutelli, è Civati». Lo scrissero anche i giornali. Tutti gli altri erano d’accordo. Per dire.

Quando si scrivono gli editoriali e si citano le persone, e ci si appella con piglio rivoluzionario al cambiamento, bisognerebbe rispettare le battaglie che altri stanno facendo, da anni, snobbati da una certa «intelligentsia» (perché a una «nomenklatura» ne corrisponde sempre una, vero Flores?) che è sempre la stessa. E ha accompagnato il centrosinistra in questi anni, dicendo le stesse cose, senza incidere nel dibattito, senza promuovere energie fresche e davvero capaci di cambiamento. Senza sporcarsi le mani e senza rischiare granché.

Non siamo giovani, caro Flores, e lo ripetiamo. Una cosa è certa: siamo molto più impegnati di lei in una battaglia per il rinnovamento delle strutture della politica. E anche se fa finta di non capirlo e di non saperlo, mi dispiace: ma si legga le cose che scrivo, perché ci troverà gran parte degli argomenti che adotta nel suo editoriale. E il suo prossimo appello, lo stesso, che ci accompagna da vent’anni e forse più (all’infinito), come scriverebbe lei, lo rivolga non a D’Alema e Veltroni, ma ad una nuova classe dirigente, che lei non conosce, ma che già c’è. Perché è quello il passaggio che le manca, mi creda.

Disponibile a organizzare con lei un confronto pubblico in cui chiarirsi e mandarsi anche a quel Paese, se serve, la saluto cordialmente.

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