A Bologna abbiamo detto che è importante soprattutto rispondere, e che le risposte, appunto, sono più importanti delle proposte. Rispetto a quanto hanno scritto ieri Alesina e Giavazzi, ecco le nostre considerazioni (in italico le loro proposte):

1) Sbloccare il mercato del lavoro con una progressiva introduzione di contratti unici che eliminino al tempo stesso sia l’eccessiva precarietà sia la perfetta inamovibilità dei dipendenti di alcuni settori.

Perché il plurale? La Ue chiede solo l'eliminazione della precarietà. L'accordo tra Confindustria e sindacati sull'inamovibilità, invece, già c'è stato.

2) Sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei, ispirandosi alla flex security dei Paesi nordici.

Alesina e Giavazzi, in questo caso, sono addirittura timidi. Nei paesi nordici il sussidio temporaneo di disoccupazione è affiancato dal reddito minimo di cittadinanza, e anche nella liberista Gran Bretagna. Per cui il passaggio dalla Cassa Integrazione a strumenti più 'universali' è certamente auspicabile (lo abbiamo detto a Firenze, l'anno scorso, lo abbiamo ripetuto quest'anno, a Bologna). Ma c'è un ma: siccome, grazie a questo governo che anche loro hanno appoggiato, l'anno prossimo andremo in recessione piena (variazione Pil negativa), togliere la cassa integrazione ora significa immediata distruzione di posti lavoro, che sarebbero magari recuperabili l'anno successivo. In effetti, grazie alla somma degli effetti Berlusconi + crisi, non ci discostiamo molto da un'economia postbellica: quella, cioè, per cui era stata pensata la Cassa Integrazione.

3) Tornare alla formulazione originale dell’articolo 8 della manovra finanziaria di agosto, quella inizialmente scritta dal ministro Sacconi e poi modificata su richiesta dei sindacati e con l’accordo di Confindustria: maggiore libertà per imprenditori e lavoratori di fare, se d’accordo, scelte a livello aziendale.

Questo va contro le richieste della Ue sull'abbattimento della precarietà per tornare a sostenere i redditi più bassi. Va bene l'accordo già firmato dalle parti.

4) Permettere ai salari del settore pubblico di essere diversi da una regione all’altra a seconda del costo della vita. Al Sud il costo della vita è in media il 30 per cento inferiore rispetto a quello del Nord, ma i salari monetari dei dipendenti pubblici sono uguali. Questo permetterebbe un risparmio di spesa pubblica e faciliterebbe l’impiego nel settore privato al Sud dove oggi invece conviene lavorare per le amministrazioni pubbliche.

Le gabbie salariali sono già state sperimentate e hanno avuto come conseguenza solo quella di alimentare l'emigrazione e impoverire ulterirmente il Sud. Se il salario, come dovrebbe in questo sistema, remunera la produttività, la proposta di legarlo alle condizioni di contesto è un nonsenso economico: e lo è tanto più oggi, che si possono fare gli acquisti tramite la rete, e non necessariamente nello spaccio del paesello.

5) Favorire l’occupazione femminile con agevolazioni fiscali quali le aliquote rosa per le donne che lavorano. L’occupazione femminile in Italia è la più bassa d’Europa.

Anche queste non hanno mai funzionato. Le donne hanno bisogno di welfare per accedere e praticare il lavoro con pari impegno e opportunità.

6) Riformare con equità le pensioni di anzianità (oltre all’aumento dell’età pensionabile annunciato da Berlusconi) e prevedere, con la dovuta gradualità, che si possa lasciare il lavoro solo quando si raggiungono i requisiti per una pensione di vecchiaia o i massimi contributivi. Lo scorso anno l’Inps ha liquidato 200 mila nuove pensioni di vecchiaia e un numero simile (175 mila) di nuove pensioni di anzianità. Ma l’importo medio di un’anzianità è di 1.677 euro, contro 602 euro di una pensione di vecchiaia.

Credo non ci siano spazi per queste finezze: il problema, come diceva ieri Rita Castellani, è di breve periodo. L'importante è che si sappia dove finiscono i soldi: dato che non si possono spendere subito, la nostra proposta – di spostare in avanti l'età pensionabile, a fronte di accantonamento di contributi per chi è nei guai (i precari degli ultimi quindici anni) – resta la più equa. Naturalmente si potrebbe anche pensare a qualche forma di compensazione per chi esce: per esempio, consentire di mobilitare il Tfr alla "vecchia" scadenza (e cioè prima del nuovo limite di pensionamento). Ma bisogna comunque ricordare che siamo costretti a questo perché abbiamo buttato via un ventennio di opportunità per l'intero Paese.

7) Riforma della giustizia civile che accorci i suoi tempi, oggi glaciali, uno dei maggiori ostacoli, soprattutto per i giovani imprenditori. In un articolo pubblicato su questo giornale il 5 giugno abbiamo fatto proposte concrete sull’organizzazione del lavoro dei giudici per raggiungere questo obiettivo a costo zero.

Questa è l'unica che va sempre bene.

8) Eliminare alcuni dei privilegi garantiti agli ordini professionali. Aprire ai privati la gestione dei servizi pubblici locali (per esempio gestione dei rifiuti). Liberalizzare i mercati, partendo da ferrovie, poste ed energia.

"Alcuni" dei privilegi: qualcuno glielo lasciamo, no? E perché? La liberalizzazione del settore delle professioni è cruciale per la produttività del sistema. Quanto al resto, siamo curiosi di vedere sul tavolo (ma davvero, stavolta) i soldi dei potenziali compratori di patrimonio pubblico. Sui servizi pubblici, si fa notare che i rifiuti sono già parecchio liberalizzati e che i risultati dei referendum andrebbero tenuti in considerazione, nel dibattito politico dei prossimi mesi, perché non è ancora stato fatto. Quasi da nessuno.

9) Allargare la base imponibile riducendo l’evasione per poter abbassare le aliquote: niente condoni, perché i condoni sono un invito a evadere il fisco. Vincolarsi per legge a destinare le maggiori entrate derivanti dal recupero dell’ evasione unicamente alla riduzione delle aliquote fiscali, in particolare sul lavoro, con una specifica attenzione a quello femminile.

Il recupero dell'evasione va destinato al debito (insieme alla patrimoniale una tantum, di cui abbiamo parlato domenica). La prevenzione sistematica dell'evasione (insieme alla patrimoniale ordinaria, ragionata, secondo la proposta di Filippo Taddei) va per l'abbassamento delle aliquote sul reddito.

10) Dimezzare i costi della politica, nel vero senso della parola, cioè una riduzione del cinquanta per cento. Ciò non avrebbe un effetto macroeconomico diretto ma darebbe un importante segnale politico di svolta.

Questa la diciamo da tempo.

Dal punto di vista del metodo bisogna abbandonare la concertazione. Non è possibile che un governo debba decidere qualunque riforma intorno a un tavolo (reale o virtuale) in cui i difensori dei privilegi che quella riforma taglierebbe possono fare proposte alternative e contrattarle con il governo. Infine rimane il problema di «quale» governo abbia il coraggio di fare tutte queste cose. Berlusconi ha una grande occasione per dare un colpo d’ala al proprio governo. Oppure serve una grande coalizione? O un governo tecnico? Non siamo politologi e non lo sappiamo, ma di una cosa siamo convinti: se non si sblocca l’impasse in cui siamo caduti, se neppure il baratro cui ci stiamo affacciando spaventa questa classe politica, allora siamo veramente nei guai. E con noi l’Europa.

Abbandonare la concertazione non in modo indiscriminato e solo se è chiara la governance, però: ci vogliono responsabilità esplicite e pro quota per tutti gli attori, pubblici e privati. A Bologna, Andrea Di Benedetto, riprendendo una mia antica intuizione, ha parlato di partito e di politica degli «Zero Voti»: che non chiede voti a nessuna delle parti e a nessuna delle corporazioni, soprattutto, ma che formula proposte coraggiose e, alla luce della situazione, necessarie.

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