E le contraddizioni del nostro tempo. Olmi fa un film che sembra un presepe, per la rappresentazione teatrale, di una chiesa in cui crolla il sipario della simbologia, in cui si cerca il bene, oltre che la fede. Un presepe, per le figure che la chiesa, ormai vuota, tornano a popolarla, come luogo di emergenza. Un presepe, ancora, per le ronde e i militari che incombono, e che sono proprio come vogliono essere rappresentati. Un presepe, che non lo è, perché gli immigrati portano nel grembo la paura e la voglia, ma anche il risentimento e la violenza.

Perché "le pance vuote si possono riempire di esplosivo", perché il cambiamento che si pretende non riguarda solo l'episodio del film, ma un piano più complesso, quello delle relazioni tra i mondi diversi che, in questo mondo, coabitano. Perché l'incertezza dell'integrazione è sempre di cartone, appunto, e va rafforzata, e ripensata, ogni giorno. Perché la cristianità stessa è stata divisa, lacerata e svuotata da queste trasformazioni.

L'anziano parroco di una pieve di calcestruzzo assiste a questo passaggio, accompagnato dagli occhi dei più piccoli, che osservano. E chi organizza questa fuga verso la speranza, alla fine, alla ricerca della parola e della mediazione, il contraltare laico (e politico) di questa storia, è l'unico che viene catturato, quando il portone della chiesa è finalmente forzato dalle forze dell'ordine.

Un film potente, per la forza delle immagini e dei ritratti, per i simboli che ci propone e anche per quello che ci lascia solo immaginare, di come potrebbe essere e non è.

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