Adriano Sofri, il Primo Maggio e la modernità. Qui. «La questione andava trattata con delicatezza e con amicizia», dice Sofri, le stesse parole che ho scelto ieri, a Pisa, commentando la querelle degli ultimi giorni. E come Sofri, mi auguravo, rivolgendomi alle parti in causa, di riprendere la discussione in modo diverso. Al più presto.

Il Primo Maggio, e domenica per giunta: troppa grazia. A distanza di un anno, si ripete pressoché negli stessi termini, però più inaspriti, la controversia sulla festa. Il sondaggio fra i lettori di Repubblica aveva toccato ieri i 45mila voti. Con una maggioranza del 74 per cento in favore della festa. Risultato netto, ma si può aver torto in maggioranza – succede, come sapete fin troppo. Le maggioranze spesso sono conservatrici, ed è proprio questo l'addebito che viene mosso ai fedeli del Primo Maggio, a cominciare dalla Cgil, arrivata anche quest'anno (spesso insieme agli altri sindacati del commercio) al paradosso di proclamare uno sciopero nel giorno della Festa del Lavoro, e domenica per di più.

Conservatrice Susanna Camusso, redarguita severamente su alcuni grandi giornali perché non sta al passo coi tempi, antepone i cittadini lavoratori ai cittadini consumatori, ignora interi quartieri di negozi gestiti da cinesi che non sanno chi sia Susanna Camusso. (Ma il Primo Maggio sì, lo sanno anche i cinesi). Viene da osservare che i giornali, i grandi e i piccoli, il 2 maggio non escono, e però non si sono battuti per abolire questo anacronismo: ma è solo un'obiezione scanzonata. Sull'eventualità che siamo davvero, noi affezionati al Primo Maggio, dei nostalgici conservatori, invece occorre riflettere. Va da sé che la nostalgia delle cose belle e buone e il desiderio di conservarle, fossero pure solo illusioni, sono sentimenti tutt'altro che disprezzabili. Ma può esserci altro.

Vi copio il comandamento sulla santificazione delle feste, come lo argomenta il Deuteronomio, così: «Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato». È un brano suggestivo, anche per un non credente, anche dopo che si sia aborrita e abolita la schiavitù, anche quando si sia imparato che del precetto non si deve fare una superstizione bigotta, e che «è permesso fare del bene anche di sabato». È bello il riferimento agli animali da fatica, e pregnante quello al forestiero che si trova a casa tua. Il forestiero, che lavora come una bestia da soma, che ricava un soldo clandestino – che magari non sa chi è Susanna Camusso. Bisogna ricordarsene da liberi, perché fummo schiavi. «Per tutto il tempo della tua vita tu ti ricorderai il giorno in cui sei uscito dal paese d'Egitto».

Oggi noi siamo liberi, ci avvertono, e rischiamo di fare come se fossimo ancora schiavi: già liberi di lavorare tutte le domeniche dell'anno, e ora anche liberi di sorridere dal banco dei nostri grandi magazzini il Primo Maggio. Il Primo Maggio imposto come lavorativo, anche dove non sia richiesto da servizi di pubblica utilità e soccorso, dove non sia concordato per particolari condizioni, si vuole una conquista di libertà dunque di modernità – i due termini pretendono di coincidere. Però “noi”, i lavoratori, per uscire dal nostro Egitto, per smettere di essere schiavi, dovemmo lottare e pagare spesso con la vita, o con l´esclusione, la mortificazione, la galera, il nostro giorno di festa. è trascorso ben più di un secolo, e nel frattempo dittature sorte in nome del lavoro pervertirono la festa di liberazione facendone una parata di potenza militare e di petti tintinnanti di orpello. Sono cadute come marionette senza fili, e cadano presto quelle che ancora resistono.

Ma il Primo Maggio è fatto ancora per ricordare che si è stati schiavi, che si è usciti dall'Egitto, che altri non ne sono usciti, e che anche noi possiamo tornare a essere schiavi, e forse ci stiamo già tornando. Ci sono tanti apprendisti faraoni in giro. Ma c'è anche un Egitto che si libera. Ci sono persone che non hanno l'età per avere nostalgia del Primo Maggio e delle belle bandiere, o per sapere che cosa vuol dire un raduno di cialtroni a Portella della Ginestra, persone che di mestiere fanno le commesse fra un giorno precario e uno interinale (lavoro a somministrazione, sic!) e non hanno avuto finora nessuna esperienza sindacale e non hanno nessuna domenica, e reimparano daccapo il Primo Maggio. Imparano che legame c'è fra il passato e il futuro. E che cos'è, anche per le più laiche delle coscienze, un sacrilegio. Si può dare per scontato che il tempo lavori a spazzar via i sabati del villaggio, e sarà tre volte Natale agli uni e niente agli altri, e conviene mettere le vele al vento che tira – ma non è un progresso. La controversia sui negozi chiusi o aperti d'autorità il Primo Maggio non è questione di passatismo e innovazione, di padri affezionati a una loro patetica gioventù e figli che si fanno giustamente largo. Non solo questo, almeno. Andava trattata con delicatezza e con amicizia. Può esserlo ancora. Se no, arrivederci a Natale.

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