Sento molti richiami, a volte un po’ moralistici e un po’ ipocriti, alla lealtà nei confronti di Bersani. Sono richiami che comprendo e che condivido, anche perché l’unico momento in cui ho avuto qualcosa di ridire nei confronti del segretario del Pd è stato in occasione della famosa lettera a Repubblica. Per il resto, ricordo di averlo difeso dagli attacchi (di quasi tutti) dopo la sconfitta delle Regionali e di avergli fatto un po’ di proposte che devono anche essergli piaciute, se è vero che ne ha riprese molte (senza dirmi nulla, ma non fa niente), dalle Mille piazze all’atteggiamento nei confronti del No-B Day, dalla campagna d’estate alla mobilitazione autunnale. In cambio, non ho certo ottenuto granché, se è vero che gli uomini del segretario nazionale, in occasione delle ultime elezioni regionali, non mi hanno certo sostenuto (ma hanno fatto male i conti e non fa niente/2). E che quando mi è stato chiesto di partecipare alle trasmissioni televisive (ed erano i giornalisti a chiederlo, per capirci) molti, nell’entourage, si sono pure risentiti (ma non fa niente/3).

Due sole precisazioni: la morale non me la faccio fare soltanto da coloro che sono anni che dichiarano ogni minuto, trattando ogni segretario come “capo espiatorio”, né da coloro che anticipano (per così dire), ogni settimana, la posizione del segretario nazionale, pur ricoprendo incarichi di partito (o dicendo di non ricoprirne). Gli esempi, in questo senso, sono innumerevoli.

In secondo luogo, non dimentichiamo la lezione di Steve Jobs: lealtà sì, ma niente yes man intorno e tanto pluralismo. Altrimenti, la lealtà funziona in una sola direzione. E non va bene. E non è leale.

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