Su Facebook (!) Antonio Misiani, tesoriere del Pd, chiarisce lo strano caso del blocco degli accessi a Facebook nella sede nazionale del Pd con una nota che ho molto apprezzato per sincerità e stile. La riporto qui di seguito, insieme a una mia precisazione, perché sono comunque convinto che si tratti di una scelta da evitare (e temo che questo episodio verrà ricordato ogni volta che discuteremo di libertà di accesso alla rete con i nostri – e suoi – ‘avversari’).  In ogni caso, preciso che a me non sono simpatiche nemmeno le aziende che bloccano questo o quel programma, per capirci.

Ho un profilo Facebook. Ho un mio blog. Non di tendenza come altri, ma sulla rete c’è di peggio. E curo di persona sia l’uno che l’altro, senza deleghe a segretarie o portaborse, perché credo che usati in prima persona siano strumenti molto utili per chi fa politica: finestre sul mondo, canali di dialogo e confronto. Mi sento molto lontano, quindi, dal virgolettato che Cristina Cucciniello – con cui non ho avuto mai il piacere di parlare – mi attribuisce sul’Espresso online come motivazione per lo stop di Facebook nella sede nazionale del PD. Ho però una convinzione: nei luoghi di lavoro, e negli orari di lavoro, il Web 2.0 va utilizzato per lavoro, non per svago personale. Idee da bergamasco sgobbone catapultato nella Capitale? Suggestioni aziendaliste da ex bocconiano? Mentalità da paleolitico, come ha scritto Pippo Civati sul suo blog? Negli Stati Uniti – la patria di Internet, non il paese dei Flinstones – secondouno studio dell’ottobre 2009 il 54% delle aziende blocca completamente l’uso dei social networks, il 35% lo limita ad usi lavorativi e solo il 10% lascia pieno accesso ai dipendenti. Lo stesso sta avvenendo in molte realtà private e pubbliche del nostro Paese. Il dibattito è molto acceso, ma gli alfieri della modernità non stanno tutti da una parte sola. I partiti politici non sono aziende private. E’ vero, naturalmente. Un partito vive di relazioni con la società. Un tempo si costruivano nei luoghi di lavoro o nelle feste popolari. Oggi le piazze e le fabbriche non sono scomparse (e altri partiti, come la Lega, li presidiano molto meglio di noi), ma Internet sta prendendo il sopravvento. Per tutta una serie di funzioni che si interfacciano con i cittadini i social networks rappresentano per i partiti strumenti di comunicazione imprescindibili. Ma anche il PD, come tante altre strutture lavorative, ha uffici, impiegati, funzionari. E chi lavora nel back office di un partito dubito molto che abbia bisogno di Facebook o di Twitter per svolgere bene le proprie mansioni. Un blocco indiscriminato non ha alcun senso, ovviamente. Non era e non è questo il nostro obiettivo. Nessuna censura, nessun oscuramento. Non siamo in Cina né in Iran. Ma una razionalizzazione, sì. Può servire: nei luoghi di lavoro di un partito, esattamente come accade nel mondo che sta al di fuori dei palazzi della politica.

Caro Antonio, non sapevo fossi stato tu a prendere la decisione, pensavo fossi intervenuto successivamente per spiegarne i motivi. La ritengo comunque una scelta sbagliata, per tre ragioni. La prima: un partito politico non può fare a meno di un social network. La seconda: un partito politico non può battersi per la libertà di accesso alla rete e poi vietarla (così è stata percepita la tua decisione, anche attraverso quello che la stampa ti ha attribuito), negli stessi giorni in cui è esposto – attraverso Gentiloni, ad esempio – in una campagna per la sua ‘apertura’. In terzo luogo, se si vogliono responsabilizzare i dipendenti (che così hanno fatto la figura dei fannulloni…), ci sono anche altre misure, credo, meno draconiane e più responsabilizzanti, appunto. P.S.: a me risulta che Facebook sia stato tolto in modo del tutto indiscriminato, tra l’altro. E questo è un errore tecnico che si aggiunge all’errore politico.

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