Il pacchetto Sicurezza, già approvato in Senato, nella sua sezione 50 bis, prevede che «un pubblico ministero al quale sia fornita "una seria evidenza circostanziale" che sia stata commessa un’attività online che incita al crimine, può chiedere al Ministero degli interni di ordinare al provider di chiudere la risorsa in rete “incriminata”. Un eventuale rifiuto del provider di ubbidire all ordine del Ministero può essere sanzionato con una multa fino a 250.000 Euro» (cfr. qui). Come cultori della materia, non possiamo non rilevare che un simile testo legislativo possa comportare la chiusura di intere piattaforme e di interi siti che ospitino contenuti ritenuti criminogeni (e nel web 2.0 può capitare ogni momento). Una misura eccessiva, lesiva della libertà di espressione, totalmente irrispettosa dell’attività di chi in rete opera a fini imprenditoriali, difficilmente applicabile e assolutamente imprecisa nel colpire chi intenda usare la rete per scopi illeciti o per incitare al crimine e alla violenza. E’ del tutto evidente che chi crea attività imprenditoriali in rete non può essere responsabile di ogni uso e iniziativa che gli utenti prendano quando ospitati o serviti da tali piattaforme: e non si può pensare alla chiusura tout court di simili attività. E’ necessario intervenire contro chi usa la rete per scopi criminali? Certamente. Lo si faccia però con misure calibrate e efficaci e senza rendere impossibile la vita sulla rete e nei social network. A meno che qualcuno non voglia chiuderli, e allora forse sarebbe il caso di dirlo subito, senza tanti giri di parole. E di procure.
Mattia Carzaniga e Giuseppe Civati

P.S.: oggi ne parla anche Francesco su l’Unità.

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