E’ in assoluto il più impegnativo post dell’ormai lunga storia di questo piccolo blog. Lo scrivo da Timbuctù, all’ombra dell’ultimo sole e della grande moschea. Siamo alla fine del mondo, anche se Timbuctù non è più "la fine del mondo", ma un luogo di grandi nostalgie per tutti, per i tempi d’oro (in senso letterale) e per gli affetti lasciati a casa o in giro per il mondo. La fiamma della pace celebra la fine del conflitto tra berberi e tuareg là dove inizia (o finisce?) il deserto, e questo è un crocevia di carovane, di percorsi, di traiettorie. Ce le illustra il piccolo Abdu, una wikipedia tuareg in formato tascabile che sa tutto di tutto e che quando ordiniamo il classico te alla menta, lui no, lui chiede il Lipton, per dire. Siamo come trasognati, dopo aver attraversato il Pays Dogon, un luogo incantevole, fiabesco, i villaggi popolati dalle bambine e dai bambini soprattutto, i corsi d’acqua, il verde dei piccoli appezzamenti di terra e acqua portate sopra la testa e, purtroppo, a rovesciare tutto, una miseria e una fame inaccettabili. E poi il buio, e il fango, e la polvere, e la spazzatura, e però le stelle, certo, e i colori, anche, e i sorrisi, e il Niger da attraversare in un posto che sembra Comacchio, e le prime dune, e i baobab: il corso delle cose che ci ha portato fin qui. E però anche il senso. Che non si trova. Nemmeno qui, a Timbuctù.

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