Quando Obama ha votato, insieme a Michelle, e lei gli ha chiesto qualcosa, mentre erano in cabina, con un gesto di pubblica intimità, io c’ero. Nel bel mezzo del Grant Park al quale accorreva tutta Chicago, tra migliaia di ragazzi, io c’ero. C’ero quando hanno chiamato la Virginia, e c’ero quando, qualche minuto più tardi, Cnn se ne è uscita con le sue Breaking news ed è bastato un cambio di videata e Obama era presidente. C’ero ad ascoltare McCain, c’ero quando l’inno è risuonato nel Central Park di Chicago. E c’ero quando è arrivato lui, con sua moglie, con la sua famiglia. Quando la bambina più piccola gli è saltata in braccio, e ho pensato che a loro, ai piccoli, è dedicata questa vittoria. C’ero quando Obama era emozionato, preoccupato della sfida colossale che si trova di fronte, quando ha sorriso liberando l’emozione di una notte indimenticabile. C’ero sulle note di Bruce, nella notte dolce di Chicago, perché anche il tempo è clemente quando «è tempo». In quei momenti l’America ritrovava se stessa dopo la lunga notte di Bush e dell’imperialismo canaglia, e io c’ero. E mi sembrava di essere, per la prima volta, per davvero, nel mondo, nel senso più proprio del termine, perché gli Stati Uniti lo sono e lo rappresentano. E da questo paese dipendono tante cose, a volte troppe, a volte comunque troppo poche. C’ero perché ci credo, perché il sogno di Obama è arrivato anche a noi, perché non si è limitato a correre dal mare alle montagne, da costa a costa, ma è andato molto più in là, dove la politica non riusciva a parlare se non con se stessa. E c’ero perché a volte tutto, ma proprio tutto, può cambiare.

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