Ieri sera rincasavo molto tardi e un riccio, in una strada secondaria di una delle città più edificate della zona, mi si è parato davanti. Attraversa lentamente la strada e in modo un po’ goffo, l’animaletto, che non è raro purtroppo trovare schiacciato sul selciato: non è un caso che una pubblicità di un sistema frenante per auto lo citi, chiedendo di salvarlo dalla sorte a cui spesso va incontro (in modo per la verità un po’ stupidino). Era un riccio grande, quello di ieri sera, che poi ho a lungo osservato (e, temo, spaventato) con un senso di stupore e di sollievo. Come quando Michele Serra raccontò del ritorno delle lucciole – quelle che erano sparite secondo Pasolini -, il riccio sull’asfalto, tra case e auto, fa un’immensa tenerezza e ci parla della resistenza della natura all’antropizzazione selvaggia degli ultimi decenni. E il riccio richiama Gramsci, e il famoso racconto dei ricci che prendono le mele e che lui addomestica e, potremmo dire, urbanizza, tanto che i suoi riccetti «non si appallottolavano più quando vedevano la gente». Il riccio di ieri sera, sì. Poi è bastato allontanarsi di qualche metro e il riccio si è rilassato e se ne è andato. Tornando a casa, mi è venuto in mente Schopenhauer, che dalla necessità e insieme impossibilità di stare vicini dei ricci (per via degli aculei) ha tratto una pagina meravigliosa, senza poter immaginare che di dilemmi il riccio, con sé, nel suo simpatico incedere, ne porta molti altri.

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