Oggi Alex ha disputato la sua cinquecentesima partita con la Juventus. Non è stata una partita da capogiro: siamo in B, non in Champions, e l’avversario è il Bari, non il Real Madrid. E la notizia, per me, non consiste nel dato statistico: sta tutta in un doppio passo, sull’angolo dell’area di rigore, alla destra della porta. Alex rientra, finta due volte e poi, di esterno destro, come si passa il sale, l’appoggia a Nedved nel cuore dell’area, a un passo dal portiere e dal quarto gol juventino. Un gesto naturale, da campione, che Alex sembra salutare con una serenità che da tempo non provava. E’ sereno, il Nostro, e felice. Sarà per via della penombra, quello stato in cui Del Piero, dopo anni di luci folgoranti e fitte tenebre, di subitanei abbagli e lunghi periodi di oblio, è finalmente approdato. Una penombra che oltretutto coincide con la penombra della B, che si è spalancata dopo lo sfavillare dei lampioni della finale berlinese. E viene in mente una poesia di Borges (una di quelle, per intenderci, da prima del sipario) che elogia proprio la penombra. Dice Borges, parlando di sé, ma almeno un po’ anche di Alex: «Siempre en mi vida fueron demasiadas las cosas (sono sempre state troppe, nella mia vita, le cose)» e ora, invece, «esta penumbra es lenta y no duele; / fuye por un manso declive / y se parece a la eternitad (questa penombra è lenta e non fa male; scorre lungo un dolce pendio e assomiglia all’eternità)». Là finiscono agonie e resurrezioni, giorni e notti, tutte le giocate e le cadute di un giocatore straordinario che, dalla penombra, riesce ancora a concederci quelli che ancora Borges chiamerebbe «los oros de tu sombra»: di quell’ombra, i riflessi dorati. E anche qualche sogno: anche i sogni, del resto, soprattutto nella penombra, si trovano a proprio agio.

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