Scusate, ma questa volta non sarò breve. Perché il tema è importante e attualissimo. Leggere infatti la riflessione di Hannah Arendt sui Pentagon papers (Marietti) e il libro di Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti (il Saggiatore), proprio mentre è in corso lo sciopero dei giornalisti della carta stampata e delle agenzie è di per sé significativo. Ho già scritto che qualche giorno senza l’attualità può anche fare bene: la distanza consente paradossalmente di avvicinarsi di più alle ‘cose’ e alla loro comprensione. Il problema però è molto complesso e va indagato. Innanzitutto, con la denuncia precisa che il precariato nel mondo del giornalismo è, se è possibile, ancora più grave che in altri settori, perché attiene non solo i diritti del lavoratore, ma i contenuti della sua stessa professione (e la sua professionalità): un giornalista senza contratto (che fa rima con: “sotto ricatto”) è un giornalista tutt’altro che libero, esposto com’è alle pressioni dell’editore e di coloro di cui scrive. Il problema è, che così, il sistema dell’informazione sembra non ‘tenere’ più. Della Arendt dirò in specifico post, perché nel suo Lies in politics si parla soprattutto delle responsabilità della politica. Il testo di Travaglio – forse il suo libro più bello – è invece in straordinaria relazione con quanto sta accadendo: si parla del non-giornalismo all’italiana, del parlar d’altro, delle bufale confezionate a ripetizione (vere bufalae bufalarum), dei Telekom servi, dei ‘camerieri’ di ogni schieramento. E della cosa più inquietante, e cioè che non si parla più dei fatti, ma delle opinioni: commenti interessati, veline e ‘dritte’, financo quelle ispirate dai servizi deviati (comparse per altro su uno dei due giornali inopinatamente in edicola anche oggi). Siamo nel Paese delle piazze oscure (un tempo Fontana e oggi Alimonda), delle vergognose commissioni speciali che confondono invece di chiarire, degli inqualificabili teatrini in cui le maschere si chiamano Scaramella e Betulla, di figure ambigue pronte a servire il miglior offerente, neanche si trattasse di un Goldoni allucinato e allucinatorio. Un intero mondo al servizio di un giornalismo che non è più giornalismo e di una politica che non è più tale, che si esprime con un linguaggio ermetico (leggete anche Bocca, accidenti!) che non ha più alcun riferimento con la realtà e spesso con il concetto stesso di informazione. E allora ha ragione Biraghi, inventore di Onemoreblog: meno male che ci sono gli spazi autogestiti sul web, dove l’informazione può essere imprecisa, ma dove i nodi vengono al pettine molto prima e molto meglio che nelle auliche redazioni di una certa stampa nazionale. Ma non è colpa del giornalismo: come per la classe politica, anche per l’informazione vale il vecchio adagio che si tratta dello «specchio del Paese». Un’Italia dove funziona perfettamente la frase di Groucho Marx che Travaglio assume quale ironico manifesto: «Il camaleonte ha il colore del camaleonte solo quando si posa su un altro camaleonte». Auguri.

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