Sarà perché stamattina sulla mia città della provincia lombarda si apre un cielo vaniglia che la rende fiammeggiante e che neanche il Manzoni – cultore del cielo di Lombardia – saprebbe descrivere, ma le cose sembrano più nitide e, nel loro nitore, quasi abbacinanti. Delle idee chiare di una domenica di dicembre, che sento il bisogno di registrare, così da poterci tornare nei giorni di pioggia, il catalogo è questo: vorrei i Pacs, perché sono un diritto, perché in tutti i Paesi ci sono, anche quelli guidati dai conservatori più retrogradi; vorrei vivere in un Paese libero, dove il destino delle persone, il loro stile di vita, le loro scelte siano determinati autonomamente, non annichilite sulla base di un principio di coscienza che riguarderebbe soltanto i parlamentari o le gerarchie sempre più aggressive di questa o di quell’altra chiesa; quale corollario, vorrei che del destino di Welby fosse innanzitutto Welby a poter decidere; vorrei che la politica si occupasse con intelligenza e appropriatezza (e, vorrei aggiungere, delicatezza) di una società che non sta cambiando, semplicemente perché è già cambiata, una società che ci ostiniamo a volere interpretare con categorie obsolete che hanno l’unico scopo di mantenere le burocrazie politiche e culturali dalle quali sono state prodotte. A meno di non volerne inventare di nuove, come la definizione stessa di «teodem» che è una sorta di contraddizione in termini, di ossimoro tradotto in corrente politica, di chimera ideologica che non ha niente a che vedere, né con la sinistra, né con il Partito democratico, né con l’Ulivo, nemmeno, arrivo a dire, con la destra liberale. Perché chi è «teo», per quanto mi riguarda, si pone sulla soglia della repubblica. Viene da rimpiangere financo il vecchio Kant, di fronte a tali sofisticherie, a tali inganni: «La legge morale dentro di me, il cielo vaniglia sopra di me».

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