Una cara amica mi scrive e mi chiede di uscire dai confini monzesi, sostenendo che mi sto occupando troppo di Cascinazza e troppo poco di altre cose più importanti (tipo il referendum: votate no, accidenti!). Mi permetto di dissentire e di respingere garbatamente la critica. Perché la Cascinazza e le altre aree agricole di Monza, oltre ad avere un valore inestimabile (dal punto di vista ambientale), rappresentano per me un simbolo. Per almeno due motivi. Il primo: la Cascinazza è una specie di fossile, una delle poche, pochissime aree agricole prossime a un centro abitato che siano rimaste com’erano dopo gli interventi degli ultimi cinquant’anni. In Lombardia le aree agricole sono diventate vieppiù edificabili e questo fa segno allo sviluppo, certamente, ma anche alla speculazione edilizia di calviniana memoria. E allora l’area lungo il Lambro è una sorta di area preistorica, uno spazio verde di cui chiunque può cogliere l’importanza e il pregio. Ma c’è un secondo motivo e riguarda il comportamento della Regione. Troppo spesso (quasi sempre) la Regione opera al di sopra dei Comuni e talvolta, con un certo accanimento politico e amministrativo, contro i Comuni. Il caso di Monza è certamente il più eclatante – tre leggi consecutive per ‘punirla’ di chissà quale colpa – ma potrei citare la vicenda della cava di Caponago (sventata!), delle discariche di Inzago, delle centrali per la produzione di energia (Offlaga, ad esempio) e di tanti altri luoghi camuni che soffrono per gli interventi della Regione. Ecco allora che la Cascinazza è un simbolo. Dell’opposizione. E della possibilità di costruire non i complessi residenziali, ma un’alternativa al centralismo e all’arroganza regionale.

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