Se avete un’oretta di tempo in questi giorni di festa e di attesa, vi consiglio la lettura de La sindrome di Meucci di Giuliano da Empoli (Marsilio, 2006). Come già Soft economy di Cianciullo e Realacci, da Empoli si pone il problema delle vie d’uscita dalla situazione di impasse alla quale l’Italia sembra essere destinata. Un luogo comune, che nasconde le opportunità e cela, quasi consapevolmente, le soluzioni possibili. Nel libro sono richiamati alcuni atavismi di cui sbarazzarsi – a cominciare dall’assetto lobbistico e dall’economia da gilda medievale, su cui ci siamo spesso soffermati – ma anche alcune prospettive da assumere seriamente (e subito). Ne citerò due. La prima, è la riflessione sulla classe creativa, sull’intercultura e su quella che da Empoli chiama serendipity culturale: la possibilità di vivere in ambienti stimolanti, competitivi e innovativi, nei quali i gruppi si confondano perché anche nelle nostre città si abbia la sensazione di trovarsi «in luoghi dove si può trovare qualcosa cercandone un’altra». Ambienti attrattivi, in cui la qualità è diffusa, la ricchezza condivisa attraverso una politica pubblica che sappia rappresentare il meglio della società e non i suoi vizi e le sue arretratezze. Un messaggio diretto chiaramente a Milano, e vengo al secondo punto. «Milano – scrive il sociologo – è fatta di compartimenti stagni che, pur raggiungendo in alcuni casi punte di assoluta eccellenza creativa, non si parlano tra loro». E’ la capitale mondiale del design, Milano, ma «allontanatevi dalle solite quattro strade ricolme di show-room e provate a muovere un passo in una qualsiasi direzione: la cultura del design è già scomparsa. Non ce n’è traccia nelle scuole, né negli uffici pubblici, né per strada, per non parlare degli aeroporti». Esempio perfetto e del tutto vero. Da Empoli cita Sartre: la cultura non la si salva, la si fa. Come la politica. E sarebbe ora che qualcuno lo facesse, nella città condominio, brutta e involuta, dei nostri giorni.

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