Consiglio a tutti gli appassionati di politica la lettura del testo di Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo? (Università Bocconi Editore, 2017), con una prefazione, molto preziosa, di Nadia Urbinati.

Per la serie (già avviata in questa sede) vale la pena di ragionarci su, a partire dalle istruzioni che lo stesso Müller pone sotto il titolo «Come occuparsi dei populisti».

Nello schema generale di Müller la premessa è la difesa del pluralismo e il rilancio di una cultura della rappresentanza, che sta alla base della risposta teorica all’affermarsi di partiti sedicenti del popolo.

Evitare la strategia del «cartello» (larghe intese, partiti delle nazioni, trasformismi da pdmenoelle, direbbero loro): «i populisti amano far notare che alla fine i loro avversari sono tutti uguali, nonostante le differenze ideologiche professate» (p. 110). Provare un confronto serrato con loro, con una serie di istruzioni precise, però:

«Parlare ai populisti non significa parlare come loro. Si possono considerare seriamente le loro rivendicazioni politiche senza prenderle alla lettera. In particolare, non si deve per forza accettare il modo in cui essi presentano alcuni problemi. Per tornare a un esempio già citato, vi erano davvero milioni di disoccupati nella Francia degli anni Ottanta? Sì. Ogni singolo posto di lavoro era stato occupato da un “immigrante”, come il Front National voleva far credere all’elettorato? Certo che no».

Sull’immigrazione gli esempi si sprecherebbero anche in Italia. Non da oggi: fin dall’inizio degli anni Novanta la speculazione politica sui migranti ha costituito un elemento fondamentale della dialettica politica. Basata su una percezione «aumentata» del fenomeno, come tutte le indagini demoscopiche confermano: gli italiani sono convinti che gli stranieri siano tre o addirittura quattro volte di più di quanti sono realmente. Perciò è necessario parlare bene per pensare bene, informare, evitare di far crescere a dismisura dati incontrollati e mai verificati.

«Un insieme di dati statistici corretti, su una specifica area politica» non farà svanire «automaticamente» l’influenza dei proclami populistici, ma può contribuire a fare «la differenza». A ciò si aggiunge secondo Müller un impegno in campo simbolico. Il punto più qualificante è quello di «un’affermazione simbolica di parti della popolazione prima escluse», perché anche le élite siano «disposte ad adottare delle misure a favore di un’inclusione concreta e simbolica» (pp. 111-112).

Del resto, le ragioni stesse che hanno fatto emergere la spinta populista vanno indagate e interpretate correttamente: come già per il cartello, vale la pena di rilevare che è in atto una sorta di rispecchiamento, in uno schema che richiama alla mente ciò che Heidegger chiamava Auseinandersetzung:

«In modo curioso, i due fenomeni si rispecchiano. La tecnocrazia afferma che vi è un’unica soluzione politica corretta: il populismo sostiene che esiste solo la volontà autentica del popolo. Più recentemente, si sono anche scambiati le caratteristiche: la tecnocrazia è diventata moralista («voi greci, e così via, dovete espiare i vostri peccati!», ossia gli sperperi del passato), mentre il populista ha assunto un approccio imprenditoriale […] In un certo senso, sono entrambi curiosamente apolitici. Pertanto, è plausibile supporre che uno possa aprire la strada all’altra, poiché entrambi sono convinti che non ci sia spazio per il disaccordo. Dopotutto, ciascuno afferma anche che esiste, rispettivamente, un’unica soluzione politica adeguata e un’unica volontà popolare autentica» (p. 124).

«Qual è l’alternativa?», si chiede Müller: «un approccio che cerchi di includere chi è attualmente escluso – che talvolta alcuni sociologi chiamano i “superflui” – impedendo al contempo ai benestanti e ai potenti di chiamarsi fuori dal sistema. Questo è semplicemente un altro modo di dire che è necessaria una qualche forma di nuovo contratto sociale» (p. 126).

Ecco, la prossima volta teniamone conto. Per evitare di ripetere errori e fare ulteriore confusione. Si tratta di tornare a fare politica, sulla base di ingredienti semplici e però fondamentali: un progetto, la coerenza nel sostenerlo, la selezione democratica delle persone migliori per coltivarlo, una cultura politica condivisa e legata ai temi costituzionali, la capacità di dare rappresentanza e di offrire soluzioni. Senza cercare scorciatoie, senza cedere a cartelli, senza eccedere in politicismi e in generalizzazioni, che ci fanno (e farebbero) assomigliare agli stessi «populismi» che vogliamo contrastare.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti