Con Beatrice Brignone e Annalisa Corrado ieri siamo stati a Ostia, tra speculazione, mafia, Pasolini, fascisti, erosione delle coste. Tutto si tiene, su quel lembo di terra dove è sbarcato Enea (da profugo).

Ecco il racconto di Beatrice:

Mentre l’infinita soap opera Salvini-Di Maio sembra l’unico argomento di interesse per la politica di tutto il Paese, stamattina decidiamo di partire per Ostia, una di quelle periferie di cui tanto si parla “per ripartire”,’ ma che puntualmente si abbandonano al proprio destino.

Con Annalisa e Marco al mio fianco, Pippo alla guida e Stefania come Cicerone, costeggiamo quella che una volta era una spiaggia ormai divorata dall’erosione. Poco più avanti, di fronte al mare, la spiaggia che ancora sopravvive è per buona parte coperta di cemento, chiusa con un cancello e inaccessibile. Come una proprietà privata. Invece è demanio pubblico. Eppure è possibile anche questo in un Paese che non sa tutelare il proprio patrimonio e che fa il prepotente con chi dorme per strada ma è sbadato con chi recinta una spiaggia pubblica dietro un cancello dorato.

Procediamo per strade che diventano man mano meno trafficate e più dissestate, verso la destinazione di questa giornata.

Arriviamo in un Paese altro.

Piccoli edifici in cemento costruiti abusivamente, ricoperti di materiali di ogni tipo. In uno spiazzo che assomiglia a un giardinetto svetta un’altalena rotta e un cumulo di rifiuti dove si intravedono giocattoli. Sembra un teatro di guerra, in un tempo di pace precaria.

A fianco al corso d’acqua che costeggia il giardino qualcuno porta a spasso il cane, passando indifferente vicino a un furgone finito o fatto finire chissà quanto tempo fa in acqua, rimasto lì ad arrugginire come un monumento surreale quanto il panorama che abbiamo di fronte.

Ci guardano tutti, ci sentiamo gli occhi addosso. Dalle finestre, dalle auto, da chi porta a spasso il cane.

Esce una Donna. Vuole sapere chi siamo, cosa facciamo, perché scattiamo foto. Ne ha tutte le ragioni.
Intorno a lei bambine piccole e ragazze che bambine lo sono state da poco e che sono le loro mamme. Siamo in orario scolastico, dovrebbero essere a scuola, mi dico.

La Donna ha lo sguardo orgoglioso e fiero. Di chi nella vita ha lottato sempre per tutto. Riconosce Stefania, che viene spesso all’Idroscalo per vedere come vanno le cose e si tranquillizza.
Ci racconta che tanti vanno lì per denunciare il degrado, fanno foto alle loro case, ai bambini, alla loro vita.

Ma denuncia dopo denuncia, foto dopo foto, scoop dopo scoop, tutto rimane uguale, mentre la loro dignità viene violata ogni volta un po’ di più.

«Siamo messi male, Signo’, ma la dignità mia è uguale alla sua. A chi piacerebbe vivere qua? A nessuno. Eppure sapesse quanta umanità c’è, qua. Qua i rom sono tanti. Sono tanti gli stranieri. Non c’è differenza tra noi. Ci aiutiamo tutti. Sapesse che solidarietà e che momenti di festa riusciamo a fare con niente».
Se la prende con quello che era «il suo partito» e poi «con quelle merde di fascisti arrivati dopo». Con l’amministrazione Raggi i rapporti sono buoni, ma ancora non si vede niente. Ma “almeno se parla con qualcuno”.

Gli edifici sono tutti abusivi, eppure i numeri civici sono stati assegnati dal comune, il fatiscente giardinetto per bambini è in realtà una piazza comunale, l’illuminazione (a led) è pubblica e arrivano fin lì due linee degli autobus «agli orari che vogliono, ma arrivano». È un limbo.

Quella Donna ci dà il nome dell’associazione che ha fondato insieme ad altre persone, per organizzare solidarietà e battaglie.

Ci raccontano quello che fanno, come è la vita in un posto così vicino eppure così lontano, come provano a costruire alternative ai bambini, che sono quelli che più di tutti avrebbero bisogno di servizi e di spazi.

Ci salutiamo, promettendoci di rivederci presto e di non pubblicare «altre foto brutte», a ragione.

Torniamo a casa grati di portare a casa una lezione di dignità e di politica che farebbe bene a tanti.

Soprattutto a chi governa.
Prima di ripartire ci fermiamo al monumento a Pasolini, dove finì in modo violento la sua vita.
E penso agli occhi fieri della Donna.

Al fango davanti casa, a un rudere troppo piccolo per una famiglia enorme, alla spazzatura tra i giocattoli, alla privazione di servizi e di legalità e a tutto quello che potrebbe portare una persona a pensare di valere meno. Di non valere abbastanza. Di non splendere.

E invece, quella Donna, insieme alle sue bambine, splende.

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