Questa mattina mi sono alzato presto, in previsione di andare a prendere la senatrice Liliana Segre per accompagnarla alla Fabbrica del Vapore per la prima presentazione pubblica che ho l’onore di condividere con lei del nostro libro.

Ho parcheggiato l’auto vicino alla sua casa attuale e ho percorso le strade della sua infanzia. Sono passato di fronte alla scuola di via Ruffini, il cui portone le fu chiuso nel 1938 per colpa delle leggi razziste. La scuola è vicina al Cenacolo Vinciano, poco più in là ci sono le Stelline.

  

  

Un piccolo tratto di strada che Liliana percorreva con 500 passettini dalla sua casa di corso Magenta, 55, poco più avanti verso il centro.

A poca distanza sorge anche il carcere di San Vittore dove, qualche anno dopo, avrebbe passato gli ultimi quaranta giorni con suo padre dopo essere stata respinta in Italia dalla Svizzera e poco prima di essere deportata. I convogli partirono da un altro luogo milanese come pochi altri, la Stazione Centrale di Milano, dagli scali sotterranei – che non lo sono perché vi si accede da via Ferrante Aporti.

Nel suo orrore e nel suo dolore questa è una storia milanese: erano milanesi i Segre e milanese la famiglia che ha avuto dopo la guerra, dopo aver incontrato Alfredo, suo marito.

Queste sono le vie della Milano più bella, più autorevole: se si vuole anche il cuore della milanesità. In un momento in cui è tutto un rivendicare identità locali e differenze basate sul suolo e sulle proprie origini, è importante attraversare queste strade. E riflettere. Perché l’unico scandalo, la pietra dello scandalo, è quella che ricorda le persone che sono state strappate dalla casa di Corso Magenta, 55. E morirono tutte, tranne Liliana. Che ora sta per scendere da casa.

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