È partito lo spin secondo il quale, dal momento che chi doveva federare la sinistra non l’ha federata, tutti gli altri, che vogliono lavorare insieme, farebbero la sinistra identitaria.

Fatta salva l’autonomia dal Pd e dal resto del quadro politico sortito da cinque anni abbondanti di larghe intese – questo per me è IL punto – l’etichetta che ci viene affibbiata è ovviamente strumentale e interessata.

Il fatto di essere autonomi non significa affatto essere minoritari. Anzi. È la chiave per non esserlo: è la chiave per proporre soluzioni che non siano immediatamente compromissorie, che abbiano una loro dignità e un loro valore assoluto.

E per farlo ci vuole un connubio tra chi fa politica ufficialmente e chi si muove nella società: la società civile non l’hanno inventata né Pisapia né Repubblica, sia detto con il dovuto rispetto. Vorremmo anche capire che cosa corrisponda davvero alla categoria della «società civile», perché anche questa rischia di diventare una categoria populistica: se la società civile è quella che si batte per l’umanità dei cittadini italiani e anche dei migranti, se è quella che difende il lavoro, se è quella che pensa al futuro dell’ambiente e del modello di sviluppo, se è quella che tiene insieme quel rimario che vuole collegati tra loro le parole «precario, salario, orario», allora ci siamo intesi. Se è quella che chiede strumenti democratici rigorosi, a cominciare dal sistema elettorale, pure. Se è quella che pretende che ci sia una battaglia senza quartiere alla corruzione e alla mafia, ci siamo.

Lo stesso vale per l’Ulivo: chi lo evoca, spesso non ne ha fatto parte. Altri, peggiori, hanno snaturato quella tradizione, che – lo ricordo – partiva da un programma definito, da un progetto per il Paese, da una chiara separazione tra i due blocchi. Non certo da larghe intese rinnovabili fondate sull’unico programma di non avere programmi e sul trasformismo politico, delle persone e delle cose.

Vale per il passato – che conta, non si può fare finta che non esista -, vale per il futuro, rispetto alle scelte da compiere. Nella prossima legislatura e anche nello scorcio della presente.

Vi faccio un esempio: leggevo ieri che Pisapia dice che è stato un errore togliere l’articolo 18 e che lui non l’avrebbe fatto. Ha ragione, dispiace che allora – tre anni fa – fummo in pochi a opporci nel nostro campo, diciamo così. Il punto però è che poi Pisapia dice che bisogna discutere di articolo 18 con chi lo ha abolito. Su questo non si capisce molto, devo dire.

Potremmo fare mille esempi del genere: contrari all’abolizione della tassa sulla casa per i benestanti, ad esempio, dovremmo parlare con chi l’ha abolita. Contrari all’innalzamento della soglia del contante, dovremmo concertare una posizione con chi l’ha elevata. Favorevoli a una progressività fiscale dovremmo discuterne con chi dice «meno tasse per tutti». Favorevoli a investimenti e strategie strutturali dovremmo sederci a parlare con chi ha fatto bonus lotteria a profusione. Favorevoli a una giusta retribuzione dovremmo parlare con chi non solo non è intervenuto sulla precarietà, ma l’ha aumentata, come dicono anche le statistiche.

Oltre alla società civile, ci vorrebbe una politica civile, anche.

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