Si era nei giorni convulsi dell’elezione del Presidente della Repubblica.

Rodotà era stato votato nelle prime tre votazioni e ci si apprestava al voto che si sarebbe poi rivelato decisivo, benché decisivo al contrario, dal mio punto di vista.

Per una forma di rispetto, quasi di pudore, nonostante avessi con lui un rapporto di grande confidenza, non lo cercai. E da allora ho sempre pensato che sia stato un grave errore non averlo fatto, perché poi come è noto le cose andarono in tutt’altra direzione. Allora sì, lo chiamai, e ci vedemmo spesso, in quei mesi, in occasioni pubbliche e private. Ma quel momento, particolarissimo, della storia della nostra Repubblica, che appassionò e inquietò molti di noi, non tornò più.

Stefano era molto amato dalle persone progressiste di questo paese, ben poco però dal ceto politico e dirigente, che lo aveva sempre visto con una certa diffidenza, per via del suo «moralismo» – di cui scrisse un celebre elogio – e della sua peculiarità culturale, irriducibile a qualsiasi categoria assoluta: è un po’ triste leggere oggi il ricordo, molto rituale, di chi non lo ha mai molto apprezzato, per non dire di chi lo ha sempre sofferto.

Di Rodotà rimane il ricordo di una persona che ha insegnato molto, a ciascuno di noi. E quando qualcuno di noi si batterà per i diritti e per la libertà, in coerenza con i principi costituzionali e repubblicani, lo farà, consapevolmente o meno, nel suo nome. Ed è una cosa bella e grande, senza dubbio: perché, anche se non proviene dal Colle, proviene dalla coscienza di ciascuno, che Rodotà ha sempre difeso, contro i pregiudizi e le discriminazioni.

Ciao, Stefano, ci mancherai.

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