In Senato, durante la discussione sulla legge elettorale si cerca di imporre la disciplina di partito (da parte del Governo, per giunta, in modo singolare). Un tentativo che è stato respinto, interpretando precisamente il divieto di mandato imperativo (che vale tanto più per questioni di particolare rilievo istituzionale come quelle che stiamo affrontando) da ventinove senatori democratici (in tutti i sensi), di cui orgogliosamente condivido il modo di rappresentare gli elettori.

In effetti, lo abbiamo scritto, con Andrea Pertici, in Appartiene al Popolo (Melampo, 2014, p. 46)

Il partito, in sostanza, dovrebbe rendere il potere […] più orizzontale. Dovrebbe fare da cinghia di trasmissione […] tra i cittadini e le istituzioni.

Senza che però queste ultime si esauriscano nei partiti. Il divieto di mandato imperativo – anche rispetto ai partiti – serve pure a questo: a evitare che l’eletto sia un emissario del partito anziché dei cittadini. E questo, naturalmente, vale in tutte le sedi di rappresentanza, a tutti i livelli territoriali e di organizzazione interna delle istituzioni.

[…] Peraltro, il mantenimento della libertà del parlamentare rispetto agli indirizzi del partito può risultare utile anche a evitare uno sbandamento del partito stesso rispetto al programma elettorale. Spesso, infatti, i partiti politici assumono, nel corso della legislatura, posizioni in merito a questioni che durante la campagna elettorale non si erano poste, o addirittura avevano ottenuto risposte diverse rispetto a quelle che sembrano poi emergere.

Appunto. Proprio come sta accadendo per le riforme elettorali e costituzionali.

È quindi una lettura che mi permetto di suggerire anche ai colleghi deputati. Anche perché quando si vota sulla revisione Costituzione il divieto di mandato imperativo vale in modo particolare.

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