Per me l’uomo dell’anno e del prossimo futuro (vedi alla voce Expo) si chiama Vito Gulli, che potremmo etichettare (sulle etichette tornerò presto) con una espressione classica: «Genius loci».

Gulli è imprenditore, ‘fa’ il tonno AsdoMar e di sé dice: «non devo niente a nessuno, sono libero come l’acqua». E ha molti motivi per pensarlo e per dichiararlo.

La metafora delle scatolette di tonno è diventata famosa per la minaccia, rappresentata da Beppe Grillo, di voler aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Uno slogan che ha accompagnato i primi mesi della legislatura e che ha ispirato il comportamento politico del movimento in ogni sua mossa: «da soli contro tutti». Una scatoletta di tonno da aprire. E allora apriamola, ma in un altro senso. Seguiamo le parole del presidente di AsdoMar.

Il suo obiettivo è creare un «movimento di estensione della consapevolezza»: secondo Gulli, per uscire dalla crisi, si deve allargare la condivisione di alcuni principi base, di alcune convinzioni che possono guidare al meglio il nostro modo di consumare e, quindi, di produrre.

Il cittadino – quando consuma – sceglie e fa politica industriale, soprattutto quando il proprio paese non è nelle condizioni di comprenderlo. E la scelta può diventare sempre più collettiva e generale. Gulli è teorico e soprattutto pratico della «sostenibilità» in senso molteplice, a tutto campo: nel lavoro, nel rispetto dell’ambiente, nella qualità del prodotto, nella consapevolezza del consumo ad esso associato. Verso gli operai italiani, all’insegna di un antico insegnamento di Henry Ford. Se gli operai non possono acquistare la scatoletta di tonno, potremmo dire parafrasando, anche la produzione di tonno scenderà. Verso la qualità, perché anche il tonno si può fare in modo molto particolare. Verso il giusto profitto, perché produrre all’estero porta certamente un beneficio economico superiore, ma impoverisce il Paese, con le conseguenze che conosciamo.

La sua non è un’opposizione tout court alla globalizzazione: assomiglia più a quanto scriveva Montebourg, qualche tempo fa, a proposito di demondializzazione. A differenza del politico francese, la meta non si ottiene con le leggi o, come per molti altri, con normative restrittive verso i prodotti stranieri, ma con le scelte, i costumi e, quindi, i consumi.

Anzi, Gulli odia il nazionalismo (si scompone, quando ne parla) e il patriottismo vuoto (anche quando si presenta sotto forma di provincialismo più spinto, di sindacalismo di territorio senza visione): dice di volersi rivolgere alla propria «tribù» (dice proprio così, «tribù») e di volerlo fare non per penalizzare le altre, ma perché è da qui che si deve partire. E che ama le altre tribù, solo pensa che si debba partire dalla propria.

D’altra parte, produrre in paesi che non hanno i nostri stessi standard ambientali non è compatibile con la salvezza del pianeta. Farlo in alcuni settori ad alto valore aggiunto, come la moda, è irresponsabile o, forse, addirittura, immorale. È avidità pura, anzi è avidità peggiorata dalla stupidità di un comportamento che impoverisce la propria comunità, che non fa puntare sull’innovazione, né aumentare la produttività e la qualità del lavoro. Che non crea competenze, che rende più fragili tutti quanti.

Sfruttare il made in Italy, ma produrre all’estero è l’ipocrisia più forte: Gulli la denuncia da tempo, è felice che ora lo dicano anche le associazioni di categoria e gli opinionisti. Perché il made in Italy è stato certamente aggredito dai falsi e dai, ma è stato indebolito proprio da chi del made in Italy si professa testimone, interprete e protagonista, senza essere coerente e conseguente fino in fondo.

Non si tratta solo dell’Italia, però, si tratta di tutti (ma proprio tutti) quanti: non c’è molto da scherzare, nelle condizioni in cui siamo, sotto il profilo della sostenibilità complessiva. Pescare tonni troppo piccoli, con capacità riproduttive, potrebbe portarci a pescare l’ultimo tonno: alla fine del mondo. Farlo con sistemi aggressivi, con i Fad, è un altro errore tragico, di cui subiremo molto presto le conseguenze.

Dice che è fondamentale il cambiamento progressivo: «anche se i miei concorrenti fanno l’1% di quello che dichiarano in senso ambientale, sono contento lo stesso», sostiene. Perché bisogna sapersi muovere nell’ipocrisia, nella strumentalizzazione, nella concorrenza sleale, addirittura, per affermare idee di progresso.

Gulli non è un santo e non è un decrescitista in senso stretto. Conosce l’interesse e il calcolo. Dice di non voler mentire, non solo perché non sta bene, ma perché è pericoloso, perché puoi essere scoperto, dice con una punta di malizia, e rischia di compromettere tutto quanto.

In un’intervista a Pagina 99, termina affermando che «con il tonno si può sfamare il pianeta». Frase colossale, che Gulli spiega volentieri a chi glielo chiede, ribadendo che non si tratta di «buonismo», ma di una scelta di razionalità, come dichiara ancora a Francesco Paternò («Lavoro e sostenibilità, l’economia in scatola», Pagina 99, 26 aprile 2014):

Nel nostro mercato la sostenibilità è fondamentale. Non le sto parlando da ambientalista ma da uomo di business. Quando penso agli investimenti, devo essere certo che non manchino due cose: la mia materia prima di base, il tonno, e il consumatore. E devo pensare che non mi manchi il tonno almeno per dieci anni. Ecco perché non è marketing pensare alla sostenibilità. Certo, uso anch’io l’argomento per vendere, ma la base è un’altra. Insomma, non rischio di pescare l’ultimo tonno adulto per mettere così fine alla specie.

Ora è alla prova delle conserve di pomodoro e della carne in scatola, con una particolare battaglia perché sulle etichette dei prodotti ci sia scritto dove sono prodotti, confezionati e realizzati (sta tempestando su Twitter anche i ministri, per raggiungere gli obiettivi di trasparenza e qualità).

Lo stabilimento di Olbia è certificato 
«100% energia verde» perché utilizza energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili e sostenibili: per il resto, AsdoMar – così si presenta ai consumatori – tratta solo tonni maturi, ci tiene a specificare che non mette in pericolo nessuna specie, che si affida a pescherecci registrati, perché vuole mari e oceani non deprivati della fauna marina e perciò adotta particolari metodi di pesca e procedure trasparenti e tracciabili.

«Noi di AsdoMar siamo orgogliosi della nostra scelta, perché mantenere tutte le fasi della produzione del tonno in Italia, senza cedere alla tentazione di delocalizzare le fasi più artigianali, contribuisce a sostenere l’occupazione in Italia, offrendo un concreto impulso al circolo virtuoso fatto di più posti di lavoro, più potere d’acquisto, più consumi e quindi ancora posti di lavoro». A Radio24 Gulli ha spiegato: «Abbiamo rilocalizzato, penso sia questa la cosa in cui mi sento più vicino a Ulisse, il ritorno a Itaca, nel senso di ritorno a produrre in Italia».

E così Gulli torna a Itaca, nel senso che riporta la produzione qui da noi, nella nostra tribù. E così la Generale conserve in dieci anni ha decuplicato il fatturato. Nel 2001 ha 12 dipendenti. Nel 2005 acquista lo stabilimento in Portogallo, dove ‘produce’ sgombro e sardina. Nel 2008 e nel 2010, rispettivamente, subentra alla Palmera in un sito produttivo a Olbia e avvia la costruzione di un nuovo stabilimento, dando lavoro a 500 persone. Tutto il processo produttivo è portato quindi in Italia, all’insegna del motto (Gulli ne ha parecchi, di motti): «valori alti e non costi bassi».

«Non ci salverà nessun politico, nessun genio, ma ci salveranno i consumatori italiani». L’idea di Gulli è quella che definisce «patrimoniale virtuale», basata sul cambiamento dei consumi della parte più ricca del Paese. Se i più benestanti lo facessero, se scegliessero prodotti che rispettano certe qualità, se optassero per una produzione consapevole, le loro scelte avrebbero un impatto ancora più alto di quello di una patrimoniale ‘violenta’, con prelievo forzoso e aumento della tassazione sulle rendite. Creerebbero lavoro, darebbero un impulso vitale alla nostra produzione nazionale, alzerebbero gli standard di qualità ambientale. La sua è una provocazione, come in molte altre occasioni, ma è tutt’altro che infondata.

Contro l’ipocrisia in tutte le sue forme e di tutte le specie, per cambiare qualcosa, ognuno nella sua tribù.

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