Il pezzo del vostro affezionatissimo, pubblicato oggi, dal Fatto Quotidiano, (22 dicembre 2014).

Noi “possiamo”. La terza via del Duemila: radicale e pronta a vincere

E noi Possiamo? La vera Terza Via degli anni in cui viviamo. Un movimento di indignati, che gridavano “non ci rappresentate” e, quindi, dichiaratamente in cerca di una rappresentanza politica che non c’è (in Italia l’avremmo dato per perso, quell’elettorato, relegandolo nell’indistinto universo dell’astensionismo). Un gruppo di professori di un’università di Madrid che hanno elaborato un progetto politico coerente e efficace: “tecnici” sì, potremmo dire, ma della “rivoluzione”. Un’organizzazione basata sull’adesione via web e una sapiente miscela tra la partecipazione aperta a tutti e le più tradizionali incursioni televisive. Una profonda critica al modello imperante, che sa declinarsi dal populismo anticasta, che in Italia conosciamo benissimo, a un’idea di società radicalmente diversa (perché l’attacco alla “casta” può avere senso solo se inserito in una più complessiva lotta contro le disuguaglianze).

Un progetto politico visto spesso come massimalista ed estremista, ha detto lo stesso Pablo Iglesias, confrontandosi con Alexis Tsipras ad Atene, il 5 ottobre di quest’anno: eppure, «riforma fiscale, audit del debito, controllo collettivo dei settori strategici dell’economia, tutela e miglioramento dei servizi ancora in mano allo Stato, recupero della nostra sovranità in campi importanti come quello dell’economia, misure che possano favorire il consumo, assicurarsi che gli enti finanziari statali proteggano la piccola e media impresa e le famiglie: sono parole che i socialdemocratici dell’Europa occidentale avrebbero avuto il dovere di dire 30 o 40 anni fa» (cfr. Giacomo Russo Spena e Matteo Pucciarelli, Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra). Un programma che, se la sinistra cosiddetta riformista non si fosse persa tempo fa, trasformandosi in una sorta di “altra destra”, ricorda i principi fondamentali della tradizione del socialismo europeo (lo ha recentemente notato anche Luciano Gallino, su Repubblica, il 16 dicembre: «Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo bombardamento denigratorio da parte dei media, della Troika, dei think tanks sovvenzionati dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini»).

Se pensiamo che in Italia quasi metà delle forze politiche sostengono che si debba uscire dall’euro o, in ogni caso, creare due monete diverse, non deve sorprendere che Podemos come Syriza non intendano abbandonare la moneta unica, chiedendo piuttosto un cambiamento comune che riguardi tutta l’Europa. Una prospettiva radicale, ma sempre e comunque di governo, in cui il populismo è sempre corretto e arginato dall’analisi economica.
Un leader riconoscibile, che ha una certa idea leninista 2.0 dell’organizzazione politica e della sua proposta, che si rivolge al 99% o, più precisamente, a quella che in Italia sarebbe la «maggioranza invisibile» descritta da Emanuele Ferragina: i precari, i poveri, i non-rappresentati, gli outsider.

Ecco che cos’è Podemos. Una formazione di sinistra, che non ha motivi però per ricordarlo a ogni passo, anche perché – sostiene Iglesias – siamo di sinistra ma non lo diciamo, anche perché si capisce benissimo e le categorie, oggigiorno, è più importante illustrarle con le soluzioni che con le dichiarazioni di principio.

La sinistra diventa competitiva se rinuncia ai suoi culti e alle sue etichette esteriori che rinviano a chissà quale esperienza storica: «Trying to transform society by mimicking history, mimicking symbols, is ridiculous. There is no repeating other countries’ experiences, past historical events. The key is to analyze processes, history’s lessons. And to understand that at each point in time, ‘bread and peace’ if it is not connected to what people think and feel, is just repeating, as farce, a tragic victory from the past», come Iglesias ha scritto per la rivista Jacobin, in un pezzo intitolato «La sinistra può vincere». A patto che non si limiti a sommare cose che ci sono o, peggio, ci sono state, a patto che ripensi fin dalle fondamenta all’organizzazione politica (siamo nel Tremila), a patto che il suo programma sia credibile e insieme capace di liberarsi dall’ossessione del presente – che per sua natura passa subito, sostituito da un altro presente – per saper progettare qualcosa di diverso per il futuro. Perché una cosa è certa: le attuali ricette non solo sono sbagliate, se guardate sotto il punto di vista dell’uguaglianza (collegato come ha recentemente riconosciuto l’Ocse a quello della crescita), ma con buona probabilità sono anche inutili.

Tra Iglesias e Tsipras si sta creando una linea condivisa, molto più incisiva delle camicie in bianco dei leader socialisti, che dopo la kermesse non sono riusciti a delineare un progetto comune. In Italia è necessario collegarsi con loro al più presto, se si vuole indicare una strada tra il rigore prussiano e il populismo di tutti quanti gli altri. La vera Terza Via degli anni in cui viviamo: la via della politica, della rappresentanza, del superamento delle disuguaglianze, condizione necessaria più di ogni altra.

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