Dirò poi dei 183 favorevoli alla riforma del Senato (altro che due terzi, poco più della metà) a riprova del fatto che questa benedetta riforma avrebbe potuto essere migliore e più condivisa. Intanto leggete la dichiarazione di voto di Walter Tocci:

Speravo di modificare il giudizio negativo espresso nella discussione generale. Invece, sono costretto ad aggravarlo non solo per i contenuti, ma anche per il metodo seguito in queste settimane. Ho deciso perciò di non partecipare al voto.

È stato impedito di apportare al testo quei miglioramenti che sarebbero stati ampiamente condivisi dall’assemblea. Molti senatori sia di opposizione sia di maggioranza volevano risolvere la questione del Quirinale, la riduzione del numero dei parlamentari, la revisione delle immunità, gli strumenti di partecipazione popolare, alcune garanzie bicamerali dei diritti fondamentali, le prestazioni essenziali delle politiche sociali regionali; perfino sull’elettività del Senato si era affacciata una mediazione con la proposta Quagliariello del listino nelle elezioni regionali.

Per creare un clima favorevole avevo proposto, nella seduta di una settimana fa, il superamento delle contrapposizioni, chiedendo ai relatori di illustrare in aula i possibili miglioramenti e alle opposizioni di ritirare i tanti emendamenti inutili. Anche la ministra Boschi si era dichiarata disponibile e aveva chiesto due ore per rifletterci. Siamo ancora in attesa di una risposta. In verità il governo ha deciso di chiudere il confronto e di rinviare eventuali modifiche alla Camera, utilizzando ancora una volta i vantaggi del bicameralismo che si vuole eliminare. L’unico cambiamento positivo c’è stato su referendum e leggi di iniziativa popolare anche per rimediare a evidenti errori commessi in Commissione.

Questa Assemblea ha mostrato di non condividere la revisione costituzionale, non è stata convinta con argomenti giuridici, ha subito imposizioni politiche. Diversi senatori di maggioranza sono stati costretti a ritirare la firma dagli emendamenti che avevano presentato. Molti colleghi hanno fatto sentire il dissenso solo con il voto segreto. Peccato che non lo abbiano espresso alla luce del sole. D’altro canto, noi che abbiamo criticato in modo trasparente e leale non abbiamo ottenuto risposte di merito, ma siamo stati ricoperti di insulti a livello personale e additati sui media come mangiapane a tradimento.

Doveva essere una discussione non priva di una certa solennità, e invece si è avvertito un clima asfissiante. Non è questione marginale. Quando si tratta della Costituzione la qualità del dibattito ne decide in gran parte l’esito.

Non era mai accaduto nella storia repubblicana che il capo del governo imponesse una sorta di voto di fiducia sul cambiamento della Carta. È uno stato di eccezione che ha già modificato nei fatti la Legge fondamentale, prima che entrino in vigore le nuove norme.

Tutto era cominciato con l’intenzione del Presidente del Consiglio di cancellare le indennità dei senatori. Voleva comprensibilmente raccogliere il malessere dell’opinione pubblica. Sembrava deciso a dare una sforbiciata alle prerogative del ceto politico, ma poi ha mediato senza farlo vedere, con l’aiuto dei giornalisti al seguito. Aveva promesso in alcune interviste di eliminare l’immunità per i consiglieri regionali che diventano senatori, ma poi ci ha ripensato cedendo alle pressioni. Aveva promesso di tagliare i costi della politica, ma si è guardato bene dal ridurre il numero dei deputati, il più alto in Europa in rapporto alla popolazione. Non ha voluto negare ai deputati la possibilità della rielezione.

Ancora peggio al Senato ha sostenuto un orribile odg Calderoli – il mio voto è stato contrario – che tranquillizza i parlamentari sulla durata del mandato fino al 2018. Ma la rassicurazione è più strutturale perché si consegna ai partiti la nomina dei futuri parlamentari, confermando un quasi Porcellum alla Camera e delegando la nomina dei senatori ai capicorrente che comandano nei consigli regionali.

La mancata riduzione dei deputati crea uno squilibrio istituzionale, come abbiamo dimostrato nel dibattito. La Camera diventa sei volte più grande del Senato e consente quindi a chi vince le elezioni di utilizzare il premio di maggioranza per impossessarsi del Quirinale. Diciamo la verità, se Berlusconi avesse modificato la Costituzione per conquistare la Presidenza della Repubblica avremmo riempito le piazze italiane.

Ma forse già allora a sinistra non la pensavamo tutti allo stesso modo. Non solo a destra, anche dalla nostra parte c’è stata la tendenza a rafforzare il potere esecutivo a discapito del legislativo. L’esito di oggi era già scritto nel ventennio passato. Tutti i governi hanno prevaricato i Parlamenti ricorrendo alle più evidenti illegalità costituzionali: il ricorso spropositato ai voti di fiducia, i decreti omnibus senza motivi di urgenza, le leggi-delega senza criteri direttivi. Tutto ciò non ha portato efficienza, ma solo una legislazione sempre più confusa e ingestibile per i cittadini e per la pubblica amministrazione.

Eppure la Seconda Repubblica non era riuscita a completare l’opera. Solo oggi il lungo lavorio di svuotamento della democrazia parlamentare trova una compiuta sistemazione costituzionale con questa legge. Ci voleva un uomo nuovo per attuare il programma della vecchia classe politica. Ci voleva il rottamatore per realizzare il sogno dei rottamati.

C’erano tante speranze per il ringiovanimento della classe politica, anche da parte di chi, come me, riconosceva il fallimento della nostra generazione. Si attendevano nuove idee, nuovi progetti e nuove soluzioni, e invece siamo ancora qui a discutere il logoro pacchetto Violante sulle riforme istituzionali.

Da venti anni i politici italiani si lamentano che non possono governare perché non funzionano le istituzioni. È una storiella inventata per nascondere le proprie responsabilità.

La paralisi decisionale non dipende dal bicameralismo, ma dalla mancanza di progetti chiari e distinti. La destra non ha realizzato il liberismo che aveva promesso nel ‘94 e la sinistra non ha contrastato le diseguaglianze come le competeva. I due poli hanno surrogato il vuoto di idee chiedendo più poteri di governo. Tutto ciò ha prodotto tante leggi, ma nessuna vera riforma. Ogni ministro ha annunciato cambiamenti epocali nella scuola, nel fisco, nel lavoro, nella giustizia, ma erano ammassi di norme inutili e spesso dannose che hanno solo aumentato la burocrazia. Purtroppo l’attuale governo prosegue sulla vecchia strada con i decreti omnibus che portano titoli roboanti ma contengono solo minuzie amministrative. Promettere di riformare la Pubblica amministrazione con duecento pagine di norme è come curare un tumore ai polmoni con un pacchetto i sigarette.

L’assenza di vere riforme viene riempita dalle illusioni mediatiche. La cancellazione del Senato elettivo è un incantesimo per far credere ai cittadini che ora le decisioni saranno più spedite e produrranno di milioni di posti di lavoro, come si legge perfino nei comunicati di Palazzo Chigi.

Purtroppo la realtà è ben diversa. La revisione costituzionale che si approva oggi non porterà alcun beneficio ai cittadini, anzi produrrà effetti negativi, e in ogni caso entrerà in vigore tra quattro anni. Intanto la crisi economica continuerà a picchiare sulla vita concreta degli italiani, se non si prenderanno misure coraggiose.

Renzi è stato bravissimo a vincere le elezioni europee ma ha sbagliato l’agenda successiva. Se avesse appoggiato la proposta di legge Chiti, che aveva pieno consenso in Parlamento, avremmo fatto meglio e prima la riforma del bicameralismo. Invece di passare due mesi nell’inutile battaglia del Senato avrebbe dovuto spendere la formidabile forza del 41% dei voti – il migliore risultato tra i socialisti europei – per ottenere una svolta nella politica dell’Europa.

Avevamo tanto atteso il semestre a guida italiana, poteva essere l’occasione per dare un impulso all’iniziativa diplomatica del vecchio continente, proprio mentre si accendevano i fuochi di guerra a Est e a Sud, dall’Ucraina, alla Libia, alla Siria, all’Iraq, alla striscia di Gaza. Invece, il governo italiano ha contribuito a bloccare la nomina del ministro degli esteri europei. Se il premier avesse candidato Enrico Letta, prima che altri facessero quel nome, avrebbe dato prova di essere un uomo di Stato che mette l’interesse dell’Italia e dell’Europa prima delle proprie inimicizie personali.

In questi giorni torna il rischio di un avvitamento della crisi economica. Se ne può uscire a breve solo con forti investimenti pubblici per creare lavoro. Erano stati chiesti margini di flessibilità all’Europa e sono arrivate risposte negative. Ma il governo italiano non ha replicato, è sembrato rassegnato ed è passato a occuparsi solo del Senato.

Oggi si approverà la revisione costituzionale. Il nostro ordinamento istituzionale ne uscirà più confuso, gli elettori non sceglieranno gli eletti e si indeboliranno i contrappesi che rendono forti tutte le democrazie europee.

Tuttavia, anche nei momenti più negativi bisogna cercare il lato positivo. Almeno l’incantesimo non serve più. Da oggi si torna alla realtà. È finito l’alibi ventennale delle riforme istituzionali. I governi dovranno dimostrare di avere le idee e le capacità di governare.

  •  
  •  
  •  
  •  

Commenti

commenti