Leggo questo post di Marina mentre sono in aula, e ascolto la (tipica) dichiarazione di voto del M5s.

A Marina preme soprattutto la «questione maschile», fa benissimo a porla e Grillo farebbe ancora meglio (finalmente) a dire qualcosa (perché a lasciar scivolare certe schifezze e accreditandole finisce che scivola via tutto quanto).

A me, in aula, dopo la solita raffica di parole (molto) grosse, in cui ci si oppone con attacchi diretti al Pd, viene da fare una considerazione parecchio banale ma, a questo punto, necessaria.

Personalmente credo che gli argomenti sarebbero più forti se non fossero accompagnati da insulti di vario genere. Che sono liberatori e, se eccezionali, ci stanno anche, dal punto di vista retorico. Il vaffa, peraltro, interpreta un sentimento parecchio condiviso, e si capisce.

Capisco anche (e fin troppo bene) che un certo linguaggio è destinato non tanto all'aula quanto alla fruizione degli elettori via YouTube e che l'indignazione si deve colorire e colorare (perché poi alle parole seguono puntualmente i cartelloni). Però ci sono parecchi però.

Risparmiarsi certi vocaboli e certi atteggiamenti, sarebbe un modo alla lunga più intelligente di interpretare il proprio ruolo, sotto il profilo politico, e non solo più civile e istituzionale (che è ovvio), ma anche più relazionale e rappresentativo. Si possono dire le stesse cose e indignarsi con lo stesso vigore anche senza dare dei ladri, degli schifosi, dei buffoni a tutti i colleghi, senza eccezione alcuna, ogni volta e a ogni discussione.

Perché poi certo ci si dichiara collaborativi, propositivi, costruttivi, ma non aiuta granché, perché si perde tutto nel conflitto incessante. E si svilisce tutto quanto: l'aula ma anche i ragionamenti che in quell'aula si portano. E il dibattito spesso degenera verso livelli che portano diritti allo schema ben noto dello «specchio riflesso» di quando si era bambini. Che se uno insulta, gli altri rispondono. E ci si avvita intorno al nulla. E si dimentica il punto da cui tutto aveva preso le mosse.

Parlare male non vuol dire che si pensa male, come vuole lo schema morettiano. Semplicemente fa passare in secondo piano ciò che si pensa. Che è anche peggio. Se poi il tono è sempre quello, sia che si tratti di uno scandalo universale, sia che si parli di un piccolo episodio, allora è proprio un disastro.

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