500 anni dal Principe e tutti dicono machiavellico senza sapere che cosa voglia dire.

Vi propongo una lettura: Discorsi I, IV,  5-sgg.

Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, e radissimo sangue.

Prosegue Machiavelli:

Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù, perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; […] E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano non che altro chi le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo. […] E i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ei s’ingannano; e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti sono capaci della verità.

La denuncia del populismo porta troppo spesso con sé la negazione del pluralismo, la chiusura in una turris eburnea della società politica, che resiste alle pressioni del popolo. Preoccupata soprattutto di dichiarare il proprio spavento per i ‘toni’, con puntuale riferimento ai «romori e alle grida» piuttosto che ai «buoni effetti» a cui l’indignazione può portare, la classe politica si ripara. E invece i popoli dall’«essere oppressi» o «da suspizione di avere ad essere oppressi» si mobilitano per cambiare. E la politica li deve considerare, soprattutto se ancora si vuole collocare sul fronte del cambiamento, che degli oppressi e della loro suspizione di esserlo si dovrebbe soprattutto occupare (questo il senso, se si vuole, del fin abusato slogan occupy). Cercando, al di là dei toni e del volume, di cogliere le ragioni di questo disagio, della rivolta delle classi meno abbienti o senza futuro, del movimento che si sta componendo a livello globale. Preoccuparsi più della sostanza delle proteste e del disagio che delle loro manifestazioni, proprio per evitare che il dibattito negato degeneri in un conflitto senza interlocuzione, e il vento che soffia si trasformi in tempesta.

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