Si leggono numerosi riferimenti al 25 luglio. Riferimenti spesso impropri, perché il ventennio di oggi non è il ventennio di allora. Ma è tipico della politica italiana attualizzare il passato per non affrontare il presente. E per negare il futuro. Del resto, è già successo con le larghe intese, con tutte le citazioni a sproposito di Moro e Berlinguer, con l'adozione di una retorica che dopo qualche settimana pare già eccessiva. Anzi, per la precisione, smisurata. Non è il 25 luglio e non sarà l'8 settembre, insomma. Ma per chi volesse ricordare davvero, allora c'è un testo in libreria che fa al caso nostro. S'intitola L'ora del riscatto, l'autore è Giaime Pintor (riproposto da Castelvecchi), e le sue parole sono bellissime e cariche di senso presente: non in ragione di un riferimento tanto studiato quanto anacronistico, ma per il loro valore assoluto.

I soldati che nel settembre scorso traversavano l'Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un'oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l'ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti. La caduta dell'impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia che aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione. Poteva scomparire in modo pacifico e i suoi postumi potevano essere curati: le giornate di settembre esclusero questa possibilità e gettarono il Paese nelle estreme convulsioni.

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