Della provincia italiana (sì, la provincia, ma questa volta Heidegger non c’entra).

Tipo, ora sono bloccato su un regionale veloce (che deve essere una formula omerica, e basta), sull’Appennino, tra Marche e Umbria. Che c’è un binario, solo, e bisogna aspettare che passi il treno che viene dall’altra parte.

E i minuti aumentano, l’attesa è vissuta come un fatto naturale, prende la piega delle colline, verdi e gialle e verde scuro (nei profili alberati) che si vedono giù dalla massicciata. Il tempo stesso si curva, e fanculo alle frecce e a tutto il resto.

A me è capitato un’altra volta, l’unica volta che – da provinciale, appunto – sono stato a New York. Che sono proprio uscito, e non volevo salire aull’aereo. E ho passato e ripassato il controllo con il metal detector, perché non volevo più tornare a casa. Mi sembrava di essere arrivato in un posto.

Ecco, qui, per motivi diversi, mi piacerebbe scendere. Non per la fretta, per il suo contrario, anche perché non lo so mica più da quanto sono su questo treno. Né so poi se ne passerebbe un altro. Ma proprio per questo vorrei capire che cosa succede, qui. Che cosa hanno negli occhi le persone. Dove si cena, che una trattoria c’è dappertutto, volete che non ci sia anche qui? E il vino che hanno, e l’accento che portano. Vorrei sapere che lavoro si fa, da queste parti, e se c’è lavoro (per esempio, ieri, in un bel posto sulla costa, il sindaco mi ha detto di sì, che lavoro ce n’è, sorprendendo quelli che lo ascoltavano).

E mi piacerebbe tornare sul treno tra un po’, che magari ci troverei il sessantenne atletico con lo zaino e il ragazzo delle medie che legge fumetti. Nello stesso posto, perché il tempo corre come un regionale. Non che non si muova, no: diciamo che divaga.

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