Con Salvo Tesoriero, che è bolognese, ci siamo a lungo confrontati e, alla vigilia del voto, mi ha mandato questo parere, che trovate qui sotto.

Si tratta, come avrete capito, del referendum bolognese sulle scuole dell’infanzia pubbliche o private.

Ancora più interessante del dibattito referendario, è ciò che potrebbe derivarne per quanto riguarda le scelte politiche nazionali.

Per quanto mi riguarda, la penso così: onore ai referendari che hanno aperto un dibattito prezioso, che consente di riflettere sulla questione da un punto di vista che in linea di principio condivido: se sotto il profilo formativo, la scuola dell’infanzia è preziosissima, lo Stato (nelle sue articolazioni) la deve garantire universalmente; ciò che non mi pare convincente è l’automatismo per cui quei finanziamenti citati nel quesito sarebbero sufficienti a fare altro (il ritorno al pubblico) e a risolvere il problema, che – come spiega Salvo – è molto più complesso.

Alla luce dei risultati, sarà importante discuterne in futuro senza mandarsi a quel paese, com’è capitato troppo spesso in questi giorni.

Osservate e leggete con me:

Nel parlare di scuola e formazione il cardine del ragionamento deve essere di ispirazione costituzionale, politica nel senso più nobile del termine ovvero di scelta fondamentale di valore: la scuola voluta dai Padri Costituenti, la scuola in cui noi crediamo è statale, pubblica, laica, libera nell’insegnamento (art. 33 Cost.). Le scuole per l’infanzia fanno parte a tutti gli effetti della nozione di scuola disegnata dall’art. 33 Cost.

Sotto questo profilo, l’evocazione della nozione di scuola come organo costituzionale è, indubbiamente, il volano concettuale che meglio tratteggia l’immagine della nostra idea di scuola.

La realizzazione sul territorio nazionale degli istituti scolastici per l’infanzia, d’altra parte, è connotata da una peculiarità che va riconosciuta a monte, pena lo scivolamento verso argomentazioni radicalmente scollegate dalla realtà: la scuola per l’infanzia non è una scuola dell’obbligo. Lo Stato, quindi, non ha il dovere di istituire scuole per l’infanzia in numero tale da garantire la formazione di ogni bambino (famiglia) richiedente. In assenza di un dovere per lo Stato, manca – specularmente – un diritto dei bambini alla formazione nella fase dell’infanzia. E’ questo il paradigma che andrebbe capovolto: la scuola per l’infanzia statale, pubblica, laica, libera nell’insegnamento dovrebbe essere un diritto per ogni bambino.

Ovviamente, il tema si complica quando l’idea fa ingresso nel mondo: il diritto alla formazione nella fase dell’infanzia è finanziariamente sostenibile interamente con risorse pubbliche?

Il caso bolognese sembrerebbe rispondere a questo quesito in senso negativo. Le scuole statali sul territorio di Bologna assorbono intorno al 17% dei bambini dai 3 ai 6 anni. Il restante 83% è distribuito tra Comune (circa il 60%) e privati (circa il 23%). Il comune investe sulla scuola per l’infanzia poco meno di 38 milioni di euro, di cui 1.110.000,00 euro in finanziamento alle scuole private. Quest’ultimo finanziamento è proprio quello che i proponenti del referendum consultivo chiedono venga destinato alle scuole pubbliche in luogo dell’attuale destinazione agli istituti privati.

Gli interrogativi allora sono due: quanti posti sarebbe in grado di finanziare il Comune con i soldi attualmente destinati ai privati? Quale sarebbe l’impatto della sterilizzazione del contributo sul sistema privato?

Sono domande alle quali non è facile rispondere. Su questo versante è in corso una guerra di numeri tra sostenitori e oppositori del quesito referendario. Al di là dei dati numerici, tuttavia, gli interrogativi pongono due temi centrali, che vanno affrontati alla luce della natura del referendum proposto: un atto consultivo che deve interrogarci sull’opportunità delle scelte di fondo del sistema che abbiamo costruito.

a) il sistema pubblico-integrato è uno strumento di gestione di segmenti strategici dell’azione dello Stato (scuola, sanità). Il modello si espone certamente a critiche ma nasce sulla presa di coscienza dello Stato di non poter finanziare interamente questi segmenti strategici. A questo punto, delle due l’una: o si capovolge l’assunto di partenza (ma si ha l’onere di indicare come finanziare interamente i servizi, e poi farlo in concreto), oppure, se l’assunto è confermato, non vi sono dubbi sul fatto che l’azione coordinata del sistema pubblico integrato sia lo strumento astrattamente più idoneo a garantire un servizio complessivamente di matrice “pubblica”, grazie ad una rete di convenzioni che opportunamente fissano vincoli e parametri all’esercizio dell’azione privata (per rimanere alle scuole per l’infanzia è sufficiente pensare alla predisposizione di standard strutturali coerenti con il resto dell’offerta pubblica, l’accoglienza di bambini con disabilità, la progressiva uniformità nella definizione delle rette con le scuole comunali e statali, la partecipazione della FISM ai Coordinamenti pedagogici provinciali, la formazione comune e condivisa del personale, la disponibilità alla valutazione dei processi).

b) Se le famiglie non godono di un diritto all’accesso dei loro figli alle scuole per l’infanzia, allora non può dirsi che l’iscrizione di un bimbo ad una scuola privata sia il risultato di una scelta di matrice “confessionale”, e ancora meno elitaria. Onestamente, noi abbiamo il dovere di superare questo preconcetto: se il pubblico non garantisce la scuola per l’infanzia per tutti, allora il parziale supporto economico alle famiglie che iscrivono ad una scuola privata i propri figli non può rappresentare un finanziamento indiretto di tale tipologie di scuole.

Rappresenta, al contrario, un minimo contributo funzionale a rendere – seppur in minima parte – effettivo il diritto alla scuola per l’infanzia per ogni bambino nelle forme di uno sconto sulla retta mensile di cui godranno quelle famiglie i cui figli non hanno avuto accesso alle scuole pubbliche. Si tratta, purtroppo, di famiglie spesso non dotate di redditi elevati. Famiglie normalissime, per intenderci. È qui, a mio parere, il cuore del problema: il taglio dei finanziamenti ai privati rischia di ricadere sulle spalle delle famiglie di lavoratori e lavoratrici che già ora fa enormi sacrifici per garantire la formazione ai propri figli piccoli. E questo mi sembra onestamente non un grande risultato.

P.S.: so che un esponente dei Teodem (esistono ancora?) ieri mi ha attaccato, senza nemmeno leggere quello che dico e che penso. Che cosa volete che sia? Sono nervosi.

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