L’organizzazione della discussione è uno dei grandi temi di questi anni: ha a che fare con la democrazia, con la partecipazione, con l’informazione, con la verificabilità dei dati di partenza (prima) e delle cose fatte (dopo).

Quando Beppe Grillo spiega che in futuro i cittadini si collegheranno a internet per votare su ogni singola decisione, dimostra di saper cogliere la questione, anche se – immagino volutamente – la semplifica senza tenere conto della complessità delle questioni stesse: il web, con i social network e con i blog – compreso il suo – sono già, in un certo senso, un luogo di discussione. Quanto è utile quella discussione? Quanto è possibile confrontare per davvero e alla pari dati e pareri autorevoli? E come si pesano, è sufficiente l’opinione di un premio Nobel per decidere cosa è giusto e cosa no? Non sbagliano anche i premi Nobel? Quanto al web, e alla discussione che genera, non c’è forse una predominanza di rumore di fondo, e infine non è forse illusorio ridurre tutti questi processi in una scelta tra favorevoli e contrari, tra sì e no?

La questione è complessa, e la strada dello sperimentalismo democratico indicata dal documento di Barca, insieme al concetto di partito palestra, indica un percorso che molti, in questi primi anni di vita del Partito democratico, avrebbero voluto percorrere. Molto tempo è stato perso, ma soprattutto c’è stato poco coraggio nella voglia di sperimentare con strumenti diversi e possibili. Per citare quello più noto tra chi nel Pd si interessa di questi temi, da anni Raffaele Calabretta e altri studiosi promuovono con non molto interesse presso la dirigenza del partito il concetto e lo strumento delle doparie, dove per doparie si indica un percorso che segue le primarie, e che permette di affrontare le discussioni sui singoli temi in modo molto strutturato, e rispettoso della necessità dei militanti e degli elettori di avere accesso a dati accurati e di diversa provenienza, e di poterne discutere in modo organizzato e fecondo.

Lo statuto stesso del Pd prevede uno strumento che non è mai stato utilizzato, quello dei referendum, il cui scopo è non solo quello di indire “primarie delle idee”, ma mobilitare tutti i presidi territoriali intorno a temi di programma o contingenti. E’ difficilissimo, per ora, ottenere dal partito l’approvazione di una simile forma di consultazione – servono 30mila firme circa, cifra aldilà della portata di qualunque gruppo di militanti per quanto ben disposti, come ho potuto verificare di persona – ed è vero che il referendum finisce con un voto sì/no, ma la sfida, non solo per i proponenti, ma per tutto il Pd, poteva e doveva essere quella di riuscire a immaginare uno schema di discussione aperto, coinvolgente, anche appassionante.

Rispettoso delle culture e delle posizioni diverse, soprattutto, perché un altro problema della discussione, soprattutto quando coinvolge una platea vasta, è non far sentire escluse le minoranze che si sono espresse diversamente rispetto alla posizione dominante. E’ forse per questo che molti documenti ufficiali di partito brillano per la loro vaghezza, per non scontentare nessuno e per lasciare a disposizione della discussione verticistica quel che si andrà poi davvero a fare, una volta al governo. Soluzione diplomatica, potremmo chiamarla così, anche se in realtà l’esperienza ci dice che tale soluzione non risolve le questioni e non ci consente di risolvere le contraddizioni, semplicemente ci rende poco efficaci e comprensibili agli occhi degli elettori, e rimanda il dibattito “a più tardi” o più banalmente paralizza qualsiasi iniziativa, pena l’apertura di insanabili e mai affrontate divisioni.

Tutto questo per dire che di sperimentalismo democratico ci sarà bisogno, nei prossimi anni, per ridare ai partiti quella funzione di corpo intermedio che hanno perso, ma anche di sperimentalismo e basta, nel senso che il tema è complesso e gli strumenti numerosi, che non sono indifferenti e che sarebbe interessante metterli alla prova: nel confronto diretto tra le persone (nei circoli, nelle assemblee a ogni livello) e sul web (con piattaforme tipo Liquid Feedback, ma anche con un occhio per novità come quella a cui per esempio sta lavorando Renato Soru); con i referendum visti come occasione di confronto, con le doparie, e magari con modi nuovi e più consistenti (non solo nomi, ma anche idee) di affrontare le primarie.

C’è tantissimo da fare, e il Pd era nato proprio per rivoluzionare il suo ruolo nella società, e la sua capacità di cogliere istanze concrete nel tessuto vivo di una società dinamica, senza più l’ideologia come unico metro di giudizio. Forse è tempo di farlo – sperimentando, appunto, invece di chiudersi. Che nemmeno i ricci: perché i ricci sono simpatici.

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