È in corso una accelerazione anche brutale, di certi processi storici che si possono definire di mutazione. Non pronunzio la parola fatidica,cambiamento, perché l’Italia ci ha abituato al ricorrere di “rivoluzioni” che alla distanza si rivelano “reazioni”. Ne parlava Vittorini a proposito del Vespro e quelle pagine restano ancora valide per decifrare la natura profonda di certi passaggi. Ma io non sono pessimista, penso anzi che ci siano oggi condizioni nuove e che il PD possa finalmente arrivare a una resa dei conti generazionale, e, ancor più cruciale, di linguaggio. La miseria del linguaggio è segno di un pensiero fermo, impantanato nella cautela. Parliamo di dirigenti che sono persone serie, che meritano rispetto. Ma la crisi di rappresentanza impone fantasia e cultura. Imporrebbe una vera e propria mobilitazione, ma questo movimento, o pensiero che si sposta, è stato lasciato ad altri. Bisogna riprendersi quello spazio, a me sembra.

Queste parole me le ha inviate un uomo di grande cultura e di straordinaria sensibilità, e me le ha scritte due mesi fa (il 12 marzo). Sono due mesi che le tengo a mente, e oggi penso sia giusto condividerle con voi.

Quello spazio non è più a sinistra o più a destra (più a destra, in questo momento, è difficile) dell’attuale Pd: lo so che può sembrare retorico, ma quello spazio è dentro di noi, come soggetto collettivo da tornare a definire, dentro la nostra storia da tornare a frequentare, dentro la sensibilità di chi dobbiamo rappresentare.

Leggo di paragoni, ribaditi anche in aula, alla Camera, tra quello che sta accadendo ora e quello che fecero Berlinguer e Moro nel 1976. Come se fosse la stessa cosa (mi fa piacere che altri, come Walter Veltroni, abbiano detto che lo trovano un paragone improprio, perché non se ne può più).

E Nadia Urbinati ce lo spiega in un bel libro, uscito recentemente. Citando Whitman e una poesia che ha cambiato il corso delle cose, almeno per lei.

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