Che mi pare di registrare in queste ore, è quella tra il Pd e i propri elettori. Molti se n’erano andati prima del 24 e 25 febbraio, in fuga verso l’astensione – in alcuni casi – e soprattutto verso le cinque stelle. Ora la delusione ha trovato nuova propulsione, un po’ per il pasticcio dell’elezione del Presidente della Repubblica, un po’ per la formazione del governo politicissimo con il Pdl.

La cosa per me sempre sorprendente (anche se non è una novità) è che il Pd e la sinistra italiana si mobilitino soprattutto dopo le sconfitte elettorali e dopo decisioni largamente impopolari: è successo nella settimana successiva alle elezioni, sta succedendo ora, in una campagna politica ed elettorale alla rovescia, partecipatissima e coinvolgente (ieri sera, a Monza, c’erano centinaia e centinaia di persone).

Il Pd si conferma il partito del dopo, del coinvolgimento a posteriori, dell’iniziativa politica a ritroso. Se avessimo, se fossimo stati, se solo ci avessero chiesto.

La prima questione che si impone non è quella di chiudersi a riccio, ma di fare in modo che i ricci portino le mele (in quella favola di Gramsci i ricci erano cinque, per altro, in una notte senza stelle, ma in cui brillava la luna). E siano messi nelle condizioni di farlo non solo gli iscritti, che sono una piccolissima percentuale del totale, ma gli elettori che si riconoscono nel centrosinistra da sempre (e da qualche giorno sono proprio loro a dire «non più»).

Non è solo un problema ideologico e identitario, è un problema politico e riguarda la missione storica che il Pd si intende dare, perché non si capisce più quale sia per il nostro partito «l’essenziale».

Mi pare invece che i ricci del Pd stiano cercando di dare al Pd una forma diversa. E non vogliono farlo attraverso il Congresso, ma prima del Congresso. Con un segretario eletto da un’assemblea del 2009 (un millennio fa), con una decisione maturata nelle conventicole, magari con il volto più presentabile e credibile della storia precedente. Per poi chiudere il Congresso, limitarlo ai tesserati, gestire il dissenso come se fosse un fastidio, separare e distinguere. Scindere, anche, tra quello che avremmo voluto essere e quello che siamo, tra quello che ci siamo detti e quello che ora ci diciamo di essere.

Che colpo: il ‘vecchio’ Bersani che faceva primarie a nastro (tanto da ‘rifarle’ per la premiership e da lanciarle per i parlamentari), lascia spazio non al nuovo, ma al più vecchio. E in occasione del governo che lui non avrebbe mai voluto fare (e che ha fatto per lui e per noi il suo vice) si assiste alla chiusura della stagione delle primarie, all’esposizione al pubblico ludibrio dei parlamentari scelti con le consultazioni di dicembre (come se fossero deficienti, come se i nominati fossero meglio), al richiamo all’ordine, come se il problema fosse di questo o di quello, di un comportamento o di un altro, e non di direzione politica.

A me sembra così ipocrita e così pericoloso fare così, che davvero non mi vengono altre parole.

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