Che si può fare qualcosa di diverso dal piano B, nel senso di Berlusconi, delle larghe intese del governissimo con il compromesso storico e l’accordo con il Pdl (perché di questo si tratta, traducendo dal politichese).

Che Marco Bosi è uno bravo.

Che ci sono elettori come quel signore che si è presentato alla fine del dibattito definendosi «provvisoriamente ex». Come milioni di italiani votava Pd, poi non l’ha votato più, ma non esclude di farlo di nuovo ove ve ne fossero i motivi per farlo.

Che la partita della settimana che inizia oggi è decisiva.

Che c’è una voglia di partecipazione politica sconfinata, ben superiore a quella della stessa campagna elettorale.

Che di punti su cui lavorare ce ne sono fin troppi e che la collaborazione è possibile e, in molti casi, auspicabile.

Che se si vuole il cambiamento, non è sufficiente annunciarlo o rinviarlo a chissà quando. L’occasione è qui e ora. Anche perché il cambiamento annunciato e frustrato provoca (quasi sempre) la vittoria della conservazione e della restaurazione.

Che non so quale sarà il nome tra i dieci che il M5S sceglierà, ma se si arriverà alla quarta votazione (quella con la maggioranza del 50% + 1) potranno entrare in gioco anche i suoi voti.

Che stare in mezzo per ora non ha fatto molto bene al Pd: da una parte, l’accusa di Berlusconi di non voler fare un governo (che lui farebbe subito, anche perché non è arrivato primo, altrimenti ciao); dall’altra, l’osservazione che il dialogo con il M5S è stato solo abbozzato e non ha certo avuti i modi del «cambiamento» che doveva dare il proprio nome al nuovo governo (che inizialmente era stato definito, appunto, «governo del cambiamento»).

Che non ne hanno parlato tanto i giornali di questo incontro, semplicemente perché è andato bene. Anzi, è andato molto bene.

Che, insomma, se il M5S scendesse dall’Aventino e il Pd mandasse qualcuno a incontrarli, ci si potrebbe trovare dalle parti di piazza Colonna, dove c’è il Parlamento, ma c’è anche Palazzo Chigi. Basta volerlo.

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