Della selezione della classe dirigente.

Perché in questi giorni sono stati allungati i tempi per andare in pensione per i comuni cittadini, ma sono stati accorciati – prepotentemente, anche se per molti ancora inconsapevolmente – i tempi di lavoro dei politici. E anticipata la fine delle loro carriere, anche se i più accorti stanno già resistendo con tutte le loro forze, cercando di resistere alle intemperie e al mutamento climatico che ha investito la vita politica del nostro Paese (più che gattopardi, sono gattotardi: sono arrivati tardi, ma cercheranno di andarsene il più tardi possibile).

Perché non si può sperare, ogni volta, in una sorta di ekpyrosis stoica, di grande conflagrazione e nell’intervento salvifico di una potenza esterna che poi sistemi le cose.

Perché l’antipolitica non lo è se a farla sono le persone da casa, ma se un sottosegretario in tv, com’è capitato ieri a Catricalà (che non è proprio un neofita, tra l’altro, della vita pubblica italiana), adotta gli stessi argomenti, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. E che, soprattutto, nessuno ha gli strumenti culturali per farla funzionare.

Perché è giusto invocare una svolta culturale, come fa oggi Zingales sul Sole, ma sarebbe interessante capire, fin d’ora, come si costruisce un nuovo gruppo dirigente. Che non si fa né con la cooptazione (monumentale in questo senso la designazione di Alfano), né per via ereditaria (la categoria, in questo caso, è quella dell’avannotto), né a martellata, ma con un paziente lavoro dal basso. Verso l’alto. E verso l’altro, perché è ancora più forte l’urgenza di costruire relazioni tra chi governa e chi è governato. Ipotizzando, tra l’altro, che prima o poi le parti si invertano.

A questo obiettivo penso si debba lavorare, e nel mio piccolo sto cercando di farlo da tempo. Mi piacerebbe che qualcuno, tra i big della politica, se ne rendesse conto. E che per una volta i gattotardi arrivassero prima che sia tutto già consumato e deciso.

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