Le giornate di Albinea coincidono con i dieci anni di Genova e non si può non tenerne conto.

Dieci anni fa ero segretario dei Ds della mia città. I Ds decisero di non partecipare alla manifestazione, dopo quel venerdì di violenza e di morte e io tenni la linea del partito, anche un po' spaventato e incerto, vi dirò.

Seguii le cronache di quei giorni dalla Festa dell'Unità che dopo anni avevamo ripreso a organizzare.

La sera della domenica ospitavamo Pietro Folena e, nello spazio del liscio, in quel giardino di periferia, proposi all'allora numero due del partito (a cui sono rimasto affezionato, proprio per via di quella serata) di incontrare i ragazzi che da Genova tornavano. Che erano furiosi e spaventati, anche nei confronti dei Ds, a dirla tutta.

Fu una serata triste, dolorosa e molto appassionante: quello che in politichese si definirebbe un confronto vero, pieno di recriminazioni, di accuse e di una speranza smarrita per molti. E di un partito che parlava con quei ragazzi, cercando di trovare un filo che si era spezzato e che tale sarebbe rimasto per molti anni ancora.

A pensarci oggi mi sembra passato un secolo. E un altro decennio di B e di incoscienza, tra l'altro.

Eppure a Genova successe qualcosa che in un qualche modo caratterizza tutta l'epoca in cui viviamo e segnò una stagione che speriamo si avvii finalmente al termine.

Perché c'era e c'è di mezzo la globalizzazione, i ragazzi, la protesta e la violenza di anni duri e irriducibili. Che proprio perché lo erano, non lo sembravano, così duri e irriducibili.

C'era e c'è di mezzo un governo impresentabile, oggi come allora. C'era di mezzo il senso dello Stato, tradito, che non si è più ritrovato.

C'era di mezzo la protesta, un estintore e una pistola. Due ragazzi e uno sparo. E il dolore di botte inconcepibili e senza fine.

C'era e c'è di mezzo (anche) un'opposizione che finisce spesso per mettersi dalla parte del torto. E, a volte, da nessuna parte.

C'è di mezzo un Paese che da allora, semplicemente, di questioni che riguardavano e riguardano il mondo ha come deciso di non parlare più. Perché era diventato un tabù, il mondo. E il localismo e la chiusura e la paura, soprattutto, presero definitivamente il sopravvento.

Eppure il mondo, da allora, ha preso un altro giro. Ed è cambiato molto. Non tutto, no, ma certamente quel ciclo politico ed economico, rappresentato proprio dai signori asserragliati in quella maledetta zona rossa, mentre fuori succedeva il finimondo. Che è una parola precisa, finimondo.

Ripensare Genova, ripensare a Genova, significa indagare in profondità questi anni. E la nostra storia, tutto sommato, che ci appare triste, senza pietà e anche un po' infame. E costa dirlo, ma è proprio così.

Tornare a Genova, come molti di noi abbiamo fatto, in questi anni, vuol dire tornare sul luogo di un delitto che ha riguardato il nostro tempo e la nostra generazione, ben più di quanto forse ci siamo resi conto. Perché allora le cose presero una piega che si è persa molto lentamente e che ha riguardato anche quelli che in quelle piazze e in quelle strade non ci sono passati mai. E non ci hanno nemmeno mai pensato, alla possibilità.

Perché succede anche così, nella storia, soprattutto quando è in gioco la debolezza cattiva di un Paese fragile come il nostro.

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