Il titolo del pezzo di oggi, per l'Unità. Quello che è apparso ieri:
La Puglia non è un film
«Qui c’è ancora molto clientelismo. Approfittando di una situazione economica disagiata dove la metà dei giovani non lavora ed è costretta a emigrare per trovare fortuna. Assistiamo inermi, e probabilmente in tutto il Sud, a una continua emorragia di classe dirigente. Prima emigravano soprattutto gli operai, ora se ne va la futura classe dirigente abbassando tremendamente verso la mediocrità la classe politica che ci ritroviamo e ci ritroveremo. Insomma, i migliori se ne vanno, i mediocri avanzano». Gabriele a Eboli me l’ha raccontata così, la situazione dei giovani come lui. Ma non se ne va. Resta. E «combatte». Con la giusta dose di ironia.
«Le giovani forze per cambiare le cose», prima che siano irretite nel ‘sistema’. Una storia antica, da queste parti. E non solo. Me lo conferma Marco Giovannelli, anche lui in viaggio, lungo la costa, sulle orme del Michele Serra di 25 anni fa, per vedere che cosa è cambiato. E ci sono note positive, e cose di cui parlare, soprattutto rispetto a come si concepisce la politica.
Oggi ho deciso, però, che dopo la mafia a Fondi e le incertezze storico-turistiche di Teano, mi occupo di bellezza. E di «fare bene le cose». Per poi scoprire che tutto si tiene. O che tutto dovrebbe tenersi. Legalità, cultura, qualità. Ecco, anche questo è il senso dell’unità. E di una sfida culturale.
Prendete il lavoro di Guglielmo Minervini, assessore alle politiche giovanili (ora ai trasporti) in Puglia. O prendete l’Apulia Film Commission. E prendetela ad esempio. Dopo la legge del 2004, voluta da Fitto, il lavoro partito nel 2007, con Vendola e la sua giunta: investimenti per la cultura che poi finiscono “sul territorio” e nella sua promozione. E poi scopri che la Puglia diventa una regione sempre più turistica. Anzi, la più turistica. Chissà come mai.
Silvio Maselli, il direttore, che opera di concerto con l’Apt (l’azienda del turismo) di Lecce per promuovere i luoghi in cui è stato girato Mine vaganti di Ozpetek. E Noi credevamo di Martone, girato un anno fa a Bovino e Deliceto, tra Lucera e Foggia (sarà a Venezia, il 7 settembre). O il Gargano di Bollywood (che qui ha fatto già cinque film) e l’arrivo di Kollywood (col kappa) a Alberobello: la versione tamil di Hollywood che ha trovato location e ospitalità in Puglia, presso «le case dei coni», i trulli come li chiamano loro.
O, ancora, la troupe tedesca di Indovina chi sposa mia figlia che ha girato e vissuto due mesi a Gravina. Con la popolazione che ha ospitato volentieri gli artisti, che ha collaborato e che si è anche sentita un po’ sola quando i tedeschi se ne sono andati. E i tedeschi, dal canto loro, arrivati con la puzza sotto il naso e un po’ diffidenti (i soliti stereotipi), sono andati via un po’ dispiaciuti anche loro. Il comandante dei vigili di allora, Nicola Cicolecchia, te la racconta ancora appassionato, quella storia. E ricorda il film per la tv dedicato a Giuseppe Di Vittorio, Pane e libertà, con Pierfrancesco Favino che attraversa il ponte romano (che dovete vedere), rientrando in Paese. Tutto si tiene, ve l’avevo detto.
Anche questa è ‘produzione’, e non è solo un gioco di parole. Anche questa è cultura.
Gravina anticamente si chiamava Silvium (!) ed è sempre stata comunista. Una cittadina di una bellezza che colpisce anche perché non te l’aspetti. La vicina Altamura, non ce n’è, «si sa vendere molto meglio», dice Nicola. «E poi sono perfidi: pensate che anche l’uomo di Altamura era di Gravina. Ad Altamura c’è morto soltanto». Scherza. Perché l’Italia è così. E forse anche le Puglie sono al plurale per qualche motivo, nota Alessandro, che viene da uno dei Nord. Appunto.
Il sindaco Vendola (si chiama così, Rino Vendola), è stato sfiduciato anche da una parte della sua maggioranza, due anni fa. Aveva avviato una serie di interventi di riqualificazione del centro storico, che sono serviti a ospitare le cose belle di cui Nicola ci parla. Il territorio, tutto intorno, è un set al naturale. E ti rendi conto che la buona educazione e l’ospitalità e tutte le “piccole cose” possono fare la differenza. Perché alla fine, dice Nicola, conta anche che il comandante dei vigili sappia il tedesco, come nel suo caso, perché poi i tedeschi scelgano Gravina. Perché lui da piccolo stava in Germania, vicino a Stoccarda, e i suoi genitori erano emigranti. E forse le cose si apprezzano di più. Anche così.
Da Gravina e dal Club Silencio di Altamura da dove sto scrivendo, mi sembrano lontani i rumori della politica che fa di se stessa il proprio unico riferimento. Mi giungono voci di altre autocandidature alle primarie: spesso si tratta di autoscontri. E se vanno avanti così potremmo vincere le elezioni anche solo facendo votare i nostri numerosissimi candidati.
I ragazzi di qui mi chiedono che cosa penso di questo dibattito sulle primarie. Penso una cosa semplice: che il dibattito non ci dovrebbe nemmeno essere, perché le primarie non solo sono previste dallo Statuto, ma servono. Soprattutto se sono un’occasione per collaborare, per confrontarsi, per precisare la proposta politica del centrosinistra. E quello che il centrosinistra ha da dire al Paese: non solo a se stesso.
«E la politica delle alleanze?», mi chiedono ancora. Importantissima. Soprattutto quella con i pezzi di società, con gli elettori delusi, con gli astenuti. Poi anche con le forze politiche. Perché è necessaria anche quella. In questa estate strana, alle alleanze, però, preferisco le speranze. Ecco: la politica delle speranze. Perché così si fa. C’è chi ci mette la poesia, chi il racconto, chi la parola, chi la scelta degli argomenti. E noi che siamo «gente di pianura», abbiamo bisogno anche dei numeri, dei dati, delle soluzioni, delle buone pratiche, del know how. E chi l’ha detto che il racconto non vada bene con l’esperienza e con la preparazione? E che quello che si fa in alcune parti del Paese non sia una «perfezione provvisoria» di cui abbiamo bisogno? Buon senso? Sì, ma anche una concezione della politica diversa. Quella che serve, l’unico antidoto al berlusconismo. Perché non c’è da aver paura di Vendola. C’è da aver paura di quegli altri. E, a volte, c’è da aver paura delle nostre timidezze. Talmente inconfessabili che le confessiamo tutti i santi giorni.
Anche per questo, appena tornato a casa, chiederò a tutti di vederci il 5 settembre a Torino, per il nostro «Lingotto operativo», alla Festa nazionale del Pd. Con il contributo degli americani di Move On, con un titolo semplice: «Vincere le elezioni. Istruzioni per l’uso». E, anche in questo caso, non è un film. Dobbiamo solo fare bene le cose che sappiamo fare. Perché la credibilità è soprattutto «credere nelle cose che si fanno». E farle con passione, come il comandante. Dei vigili. Di Gravina. Che non è mica il Che. Ma solo una persona perbene. E scusate se è poco.
L’Italia è bellissima, nonostante tutto. E potrebbe esserlo anche la politica. Se solo lo volesse, se solo lo volessimo.

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