Il Mondiale l'ha vinto il Sudafrica, per l'organizzazione e la qualità dello spettacolo. A parte le maledettissime vuvuzela, che ci piacciono talmente poco che hanno ormai invaso gli autogrill. E non solo.
A perderlo ci abbiamo pensato noi meschini e gli argentini troppo favoriti per essere anche 'veri'. L'Uruguay, la mia seconda squadra (il tifo è irrazionale), è stato protagonista di un brutto episodio (il fallo di mano contro il Ghana) ed è stato perciò perseguitato dalle Erinni, con l'Olanda e, poi, con la Germania, con le papere di Muslera e con la punizione del mitico Forlán che si stampa sulla traversa, nel recupero del recupero dei tempi supplementari. Una punizione terribile, any sense.
La finale, non solo per il pulpo, vedeva la Spagna decisamente favorita. Gli olandesi, che sono gente a posto, lo sapevano e avevano anche detto: noi li aspettiamo, quelli là, saremo mica matti. E partiamo in contropiede, eventualmente. Ci abbiamo Sneijder, noi. E Robben. Il primo aveva battuto il secondo in occasione della finale di Champions. Il secondo, tra l'altro, sembra il nonno del primo, ma hanno entrambi 26 anni. E sono talentuosi: Van Lippink li avrebbe tenuti a Rotterdam, per capirci.
Questa volta, insieme, formavano una coppia da manuale del calcio. E lo schema degli olandesi, insomma, ci poteva anche stare, perché gli spagnoli sono famosi per non segnare nemmeno sotto tortura. Nel frattempo, nelle retrovie, ci pensano i difensori e i mediani a picchiare come fabbri. E infatti, a un certo punto, nel secondo tempo, sul risultato di zero a zero, capita per due volte un pallone buono per Robben. Il primo, glielo consegna Sneijder, con un passaggio a tagliare tutto, ma proprio tutto, da centrocampo, come se fosse la cosa più naturale del mondo, disegnare linee e mettere la palla davanti alla porta, sui piedi del proprio compagno.
E Robben si trova così in quella precisa condizione in cui, una volta nella vita, sul campo della scuola o nel torneo di calcetto, ci siamo trovati tutti. Soli davanti al portiere, con una decina, forse anche di più, di metri di corsa. E lì bisogna avere il senso della misura, la freddezza, la costanza. E bisogna averne di più, perché non siamo mica all'oratorio, lì c'è il titolo mondiale a portata di mano.
Era lo schema olandese: li aspettiamo e li prendiamo in contropiede. Di palloni buoni non ne servono tanti, ne basta anche uno soltanto. Poi ci pensano quei duei là davanti, mentre dietro fioccano le ammonizioni. Gli sta bene a quei presuntuosi degli spagnoli, che si permettono anche di lasciar fare a uno come Sneijder.
E così Sneijder libera la corsa del compagno, Robben è veloce, il più veloce che abbiate mai visto, controlla in corsa, fa tutto bene, incontro a lui esce Casillas, ma alla disperata, perché Robben ha una dozzina di soluzioni diverse. Può saltare il portiere a destra o sinistra, perché il difensore che lo insegue è a un metro abbondante di distanza. Puoi fermarsi e fare il pallonetto. Il cucchiaio, perché no? Può cercare il palo più lontano, magari dando un giro al pallone volante che chissà perché deve rovinare ogni edizione dei Mondiali. Può (forse deve) alzare la palla, quel tanto che basta.
E, invece, Robben, che scarta tutto quello che trova da quando è nato, decide che è il caso di tirare: abbozza una finta a due metri dal portiere, lo spiazza, quasi si trattasse di un rigore, tira teso, rasoterra, e sembra tutto preciso. Previsto, calcolato, definitivo. Roba da prepararsi al catenaccio, e magari a un altro gol in contropiede, e poi alla coppa da alzare, tutti insieme, in una vittoria che ribalta i pronostici. E ribalta anche Paul, il polpo che porta anche sfiga (pare sia italiano, guarda caso).
Solo che non va a finire così, perché Casillas, cadendo dalla parte sbagliata, ha la prontezza di alzare la gamba e di intercettare il tiro dell'olandese. Lì si chiudono i Mondiali e poco importa che Robben abbia un'altra palla buona, qualche minuto dopo, in tutto simile alla prima e prima che la Spagna domini i supplementari. E segni, in fuorigioco, la Spagna, ma non importa. L'errore degli errori, quello dell'attaccante, quello da fuoriclasse, quello che decide, nel calcio, più di qualsiasi altra cosa. Più del rigore di Baggio, per dire. Più dell'incertezza del portiere. Più dello svarione difensivo. Il più limpido degli errori, di quelli che decidono di per sé. L'errore, quello vero. E il resto non conta più. Proprio più.
Il resto è Coppa Barcellona, servita nel finale come una crema catalana (non a caso, spunta nel giro di campo finale anche la senyera, la bandiera della 'nazione' contestata proprio in queste ore). Poi uno si chiede come mai. Ma la Spagna era il Barcelona, l'Italia era bianconera, tra Udinese e Juventus. La Spagna è prima, l'Italia Iaquinta. Alla fine, è giusto così.

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