iamo agli sgoccioli. Per il Post, come sempre, da New Orleans.
Sono a New Orleans e nel novero delle connessioni wifi disponibili il computer mi segnala la rete Voodoo, che fa pensare a collegamenti ultramondani e a contatti spirituali. Direi che per questa volta mi esimo.
A flood of words (l'etimo di logorrea è rispettato, perché i nostri interlocutori hanno molto da raccontarci) è ciò che ci accompagna mentre discutiamo dell'uragano Katrina (siamo indietro di una catastrofe, insomma). Pare che già allora ci sia stata una marea nera di petrolio, ma con tutto quello che è successo nel 2005 è finita in secondo piano. Intanto, i tentativi di recuperare il greggio proseguono, tra mille difficoltà, a qualche chilometro da qui.
A quasi cinque anni di distanza, quella tragedia biblica ha lasciato una scia di morte e di distruzione. Visitiamo i luoghi più colpiti dall'inondazione, dove l'acqua arrivò, in quei giorni, fino al secondo piano (di case a un piano solo). C'è chi è scappato e c'è chi è rimasto, magari alzando la casa come se si trattasse di una palafitta (eventualmente adibita a garage, nella parte sottostante), qualcuno addirittura predisponendosi all'inondazione con una sorta di casa anfibia, tipo l'arca di Noè. Pronta a sollevarsi e a 'natare'.
Tutti mi avevano detto che mi sarei trovato in una città europea, ma a me New Orleans sembra l'Africa, e non solo per il ricordo della schiavitù (sono stato in Senegal, nel posto 'esatto', l'île de Gorée, da cui gli schiavi erano costretti alla deportazione), né per le suggestioni che porta con sé la lettura della bella biografia del Presidente appena pubblicata da David Remnick, che muove proprio dal ponte di Selma e dalla sfida secolare che Obama incarnerebbe (per la cronaca, il titolo è proprio The Bridge).
C'è un clima (subtropicale), un profumo (milioni di miglia lontano dalla East Coast), un sapore (il mitico Gumbo) e una luce che mi ricorda qualcosa di già visto, tra il Niger e l'Oceano Atlantico. Anche senza bisogno di dover ricorrere alla musica, che qui è un fatto collettivo, quotidiano, antropologico.
C'è poco da fare, qui ci sono i blacks, qui siamo nella più nordica delle città caraibiche (lo dicono le guide) e una cassiera, che mi chiede il passaporto (perché negli Usa, come già nel Pd, a 34 anni rischi di passare per minorenne), si ferma a pensare e mi chiede: lo sai che sei nato lo stesso giorno del presidente Obama? Non pensavo che nessuno me l'avrebbe mai chiesto. Sarà indietro nei polls, ma è ancora molto amato dalla sua gente.
Oggi, a proposito di Obama, quel giornalaccio di Usa Today spiega che a fare grandi cose si perdono i voti (mi chiedo perché li perda il Pd, allora…). Obama risponde così, modestamente immodesto, come sempre: «There are always costs in doing big things».
Infine, sempre a proposito di immodesti, a pranzo si mangia chez Napoleone, nel bel mezzo del quartiere francese (che in realtà è spagnolo, per dire), e il motivo per cui il ristorantino si chiama così è che qualcuno a un certo punto pensò di ospitare Napoleone in quella casa di New Orleans, portandolo via da Sant'Elena e da quella noia che alla fine si rivelò mortale (ben prima che i pirati guidati da Jean Lafitte potessero farlo scappare, restituendolo alle sue grandi imprese). Ve lo immaginate Napoleone negli States? In realtà, per certi versi, è come se Napoleone, negli Usa, ci fosse stato davvero. A guardare la storia al rovescio, s'intende, dalla rivoluzione alla democrazia da esportare. Take away. Proprio così.
P.S.: e pensare che i francesi avevano mollato la Louisiana (che allora si estendeva per mezzo continente, fino al Canada) per qualche milione di dollari. C'era la guerra, allora, e Napoleone aveva bisogno di pagare un po' di debiti. Cose che capitano, nel corso dei secoli.
P.S./2: sto cercando di spiegare agli amici americani le «primarie guidate dai dirigenti del partito» di cui si discute in Italia. Non capiscono come sia possibile trasformarle in questo modo. A dirla tutta, nemmeno io.

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