Con Carlo abbiamo girato, mattina, pomeriggio e sera, per intervistare gli stranieri del Primo marzo. La ragazza che ci risponde: «Vengo dal Burundi, davvero, perché non ci crede mai nessuno…», è qui per studiare, con i suoi due fratelli, che sperano di vivere in un Paese dove crescere e dove poter affittare una casa senza problemi. «Chiamo e va tutto bene, poi quando mi vedono arrivare, spesso, i proprietari della casa si tirano indietro»: c’è rammarico, nelle sue parole, e la speranza che le cose cambino. C’è il ragazzo albanese arrabbiato per la battuta di pessimo gusto del premier all’indirizzo delle ‘bellezze’ della sua terra. C’è il marocchino che dice di volere i diritti – oltre ai doveri a cui dice di ottemperare – per sé e per la sua famiglia, anche perché è qui da tanti anni. C’è un’esplosiva signora nicaraguense che si gode la manifestazione, ridendo e parlando uno strano linguaggio. C’è la dignità del lavoro e l’importanza della memoria, con il presidente di Aned a Milano. C’è la povertà e la voglia di riscatto. C’è chi è orgoglioso di pagare le tasse («roba da matti», si dice a Milano). C’è la timidezza e la paura di esporsi. C’è la preoccupazione di chi è qui da tanto tempo, che vede peggiorare le cose. Ci sono tutti quelli che hanno potuto e voluto esserci, migliaia di persone, per la prima volta insieme, al di là del colore della pelle e del luogo di provenienza. Molti hanno richieste semplici, banali e burocratiche. Come la ragazza che è in Italia da quasi vent’anni, che studia all’università e che deve rinnovare ogni due anni il permesso di soggiorno. Ci parla delle seconde generazioni, che è un po’ difficile rappresentare con il semplice riferimento al ‘solito’ attaccante dell’Inter. Si conferma quanto sia stato grave l’errore della Cgil e del suo segretario nazionale che ha definito lo sciopero degli stranieri uno sciopero «etnico» (!) e parziale, che ha sostenuto la giornata, accompagnandola però con troppi distinguo e troppo politichese. Migliaia di persone, straniere e italiane, lavoratori e disoccupati, si sono incontrati per le vie di Milano, Genova, Brescia e decine di altre città. Certo, il popolo giallo non è il popolo viola, non è entrato nelle grazie dei media italiani (e non ha certo giovato al suo successo la vicinanza con la manifestazione di sabato a Roma, sia detto en passant, che l’ha fatto sparire dalle pagine dei giornali nelle ultime, decisive ore). Ma il popolo giallo è il popolo italiano, che ci piaccia o no. La migliore risposta alle tensioni di via Padova, di qualche settimana fa. Un popolo che sta insieme, si diverte, sereno, come se fosse tutto normale. Poi la vita è un’altra cosa, certo, chi lo nega. Anzi, le persone (persone, accidenti, persone) del Primo marzo ce lo hanno ricordato. Perché lo sanno. E lo vivono tutti i giorni sulla propria pelle: una pelle che, sotto questo profilo, è in tutto simile a quella dei nativi italiani.

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